«Non un robot così.»
«Beh, sono davvero sistemato,» sospirò lo scienziato. «Beh, cosa devo...»
In quell'istante si udì un ronzìo dal visore e si vide un volto pallido e trasparente. Si vedevano delle rotelline vorticare in una testa tonda. Patsy urlò e si lasciò andare alla spalliera.
«Dica a Gallegher che è Joe che lo vuole, ragazza fortunata» disse cigolando una voce. «Lei avrà il ricordo della mia voce e del mio viso per tutta la vita. Un po' di bellezza in un mondo grigio e scialbo.»
Gallegher fece il giro della scrivania e guardò lo schermo.
«Ma cosa... Come sei entrato in funzionamento?»
«Beh, avevo un problema da risolvere.»
«Ma come sapevi dove ero?»
«Semplice, ti ho vastenato» disse Joe.
«Tu, cosa hai fatto?»
«Ho vastenato che eri negli studios Vox-View con quella Patsy.»
«Ma cosa significa vastenare?» chiese Gallegher attonito.
«È un senso che ho, e poiché tu non ne hai nemmeno di simili, non posso descrivertelo. È una specie tra il sagrazi e la prescienza.»
«Sagrazi?»
«Beh, già, tu non hai nemmeno il sagrazi, eh, sto perdendo tempo. Meglio tornarmene davanti allo specchio.»
«Ma, parla sempre così?» si informò Patsy.
«Quasi, qualche volta dice cose che sembrano ancora più sconclusionate. Va bene, Joe, cosa c'è?»
«Adesso non lavori più per Brock,» sospirò Joe. «Ora tu lavori per la Sonatone.»
Gallegher inspirò una lunga sorsata d'aria. «Continua, devi essere proprio impazzito.»
«Mai come Kennicot, mi dà fastidio, troppo brutto. Le sue vibrazioni mi disturbano i sagrazi.»
«Non lo ascolti,» ribatté Gallegher che non voleva discutere in presenza di Patsy della faccenda dei diamanti. «Avanti tornatene...»
«Lo sapevo che Kennicot sarebbe tornato se non lo pagavi. Quando sono venuti Elia e James Tone al laboratorio gli ho chiesto un assegno.»
Patsy strinse la mano al braccio dello scienziato. «Cosa? Ehi, che significa questa storia? Doppio gioco?»
«No, un momento, devo andare a fondo. Joe, ma, accidenti alla tua corazza trasparente, che diavolo hai fatto? Hai accettato un assegno dai Tone?»
«Mi son fatto passare per te.»
«Già,» tuonò Gallegher sarcasticamente feroce. «Si spiega tutto adesso, già, siamo gemelli, identici in tutto e per tutto.»
«Li ho ipnotizzati,» spiegò dolcemente il robot. «E loro hanno creduto che fossi te.»
«Tu, hai fatto questo? Ma come?»
«A dire il vero sono rimasto scosso, effettivamente. Poi ho riflettuto su e ho vastenato che potevo farlo!»
«Tu cosa... ah già! Anch'io dovevo vastenare la stessa cosa. Ma che diavolo è successo?»
«I Tone hanno subdorato che Brock ti aveva chiesto aiuto e ti hanno offerto un contratto esclusivo, sei completamente legato al loro carro. Non puoi lavorare per nessun altro. Diventerai ricco, sai, ho fatto finta di essere Gallegher e ho accettato. Ho firmato il contratto, con la tua firma naturalmente, mi hanno dato l'assegno e l'ho spedito a Kennicot.»
«Tutto?» sospirò Gallegher debolmente. «Che cifra era?»
«Dodicimila.»
«Cosa, mi hanno offerto solo dodicimila?»
«No,» rispose Joe. «La loro offerta era centomila, più duemila alla settimana per cinque anni. A me bastava solo la cifra sufficiente per coprire il tuo debito con Kennicot, così non tornerà più a disturbare i miei circuiti con la sua brutta presenza. I Tone erano molto soddisfatti, soprattutto quando gli ho detto che bastavano dodicimila.»
Gallagher si strozzò un suono in fondo alla gola, mentre Joe annuiva meditabondo.
«Ho pensato che andavi avvertito che ora lavori per la Sonatone. Beh, ciao, ora torno allo specchio per rifarmi la vista.»
«Un momento,» lo bloccò Gallegher. «Aspetta, Joe, senti, adesso vengo e ti faccio a pezzi, ti distruggo tutti gli ingranaggi, uno dopo l'altro, poi mi metterò a ballare sulle tue ossa.»
«Beh, non reggerà certo davanti a un tribunale» singhiozzò Patsy.
«Ma sì invece,» rispose gentile Joe. «Beh, mi guardi ancora una volta per rallegrarsi, me ne vado.» E infatti il robot se ne andò.
Gallegher vuotò il suoi Collins in un sol sorso. «Sono assolutamente sobrio, ma scioccato,» disse Gallegher a Patsy. «Ma cosa ci avrò messo in quel dannato robot? Ha dei sensi assolutamente anomali. Può ipnotizzare e far credere di essere me, o far credere che io sono lui, ma boh, cosa sto dicendo?»
«È uno scherzo?» intervenne duramente Patsy Brock dopo una pausa. «Ma è sicuro di non essere stato lei a firmare il contratto con la Sonatone e che il suo robot non le abbia fornito un alibi di comodo? Me lo sto chiedendo.»
«No, no, Joe ha firmato il contratto con i Tone, non sono stato io. Ma senta, pensi un po' alle conseguenze, se quella firma è uguale identica alla mia, se Joe ha ipnotizzato i Tone e credono di avere visto me, i Tone potranno testimoniare che ero io. Accidenti!»
Patsy socchiuse gli occhi. «Non possiamo pagarle la cifra offerta dai Tone. Ma certo, lei lavora per la Vox-View.»
«Certamente.»
Gallegher guardava il bicchiere ormai vuoto, già, stava lavorando per la Vox-View, ma invece apparentemente aveva firmato un contratto con la Sonatone per cui doveva lavorare in esclusiva per cinque anni, nonché per dodicimila crediti. Ma i Tone avevano offerto centomila crediti più duemila all'anno.
No, no, l'aspetto economico della questione era quello più interessante, non certo quello morale. Gallegher era nei guai seri ora. Se la Sonatone gli avesse fatto causa avrebbe dovuto pagarli lavorando gratis per cinque anni. La prima cosa da farsi era distruggere quel contratto e risolvere anche il problema di Brock.
Considerato che era stato Joe a cacciarlo nei guai, il robot avrebbe dovuto tirarlo fuori, di capacità straordinarie ne aveva fin troppe. Adesso lo avrebbe costretto a darsi da fare per liberarlo o avrebbe tra poco contemplato solo le sue frattaglie.
«Ecco qua!» parlò quasi tra sé Gallegher. «Lo dirò a Joe. Lei, Patsy mi rifaccia ancora un pieno, svelta e mi mandi al reparto tecnico. Voglio vedere quei progetti.»
La ragazza lo guardava con una certa espressione di sospetto. «Va bene, ma stia a sentire, se cerca di tradirci...»
«Ma se sono stato io a essere tradito. Le confesso, ho paura di quel robot, ma l'ha visto? Mi ha vastenato in un istante. Ma che Collins deliziosi!» Gallegher si buttò giù d'un fiato il cocktail nel gargarozzo.
Guidato da Patsy, arrivò agli uffici tecnici dove un apparecchio selettivo, il correttore, eliminava ogni confusione rendendo possibile la interpretazione di progetti a tre dimensioni. Gallegher si tuffò nello studio dei progetti, c'erano anche le copie dei progetti Sonatone. Da quanto vedeva la concorrenza si era salvaguardata in maniera molto abile. Impossibile fare qualcosa su quel fronte. Qualsiasi altro impianto di amplificazione avrebbe necessariamente violato uno dei brevetti. Questo se non si prendeva in considerazione un principio assolutamente nuovo e inedito.
Non era però come dar la caccia alle farfalle, anche se fosse stato possibile acchiappare al volo principi nuovi, il problema sarebbe sopravvissuto lo stesso. Anche nel caso ottimale che la Vox-View avesse inventato un amplificatore diverso da quelli brevettati, Magna, sarebbe continuato impunemente il traffico illecito di cinema-fantasma. Non bisognava dimenticare il fascino atavico dello spettacolo collettivo, la questione presentava un risvolto socio-psicologico oltre a quello scientifico.
Nella mente di Gallegher tutti i dati si incasellarono in ordine geometrico. Più tardi avrebbe estrapolato e utilizzato quelli che gli sarebbero serviti. Ma ora era perplesso, qualcosa lo turbava.
Ma cosa? Ah, l'affare Sonatone non gli dava tregua.
«Senta, voglio contattare i Tone,» disse a Patsy. «Come potrei fare?»
«Li chiamiamo via visor!»
Gallegher fece cenno di no. «No, no, per noi sarebbe un ostacolo di carattere psicologico, è facile interrompere la comunicazione.»
«Beh, se si sbriga, forse li trova in qualche night-club. Vedo un po' cosa poter fare!» Patsy si allontanò velocemente e nello stesso istante sul visor apparve Silver O'Keefe.
«Sono una villana, e ascolto dal buco della serratura. Sa che talvolta mi capita di sentire qualcosa di interessante. Se vuol vedere i Tone, sono al Castle Club, e quanto a me, intendo accettare quel cocktail che mi ha offerto prima.»
«Eccellente!» rispose Gallegher. «Chiami un aerotassì, io vado a dire a Patsy che siamo sulla rotta per il Castle Club.»
«Beh, non lo approverà certamente,» fece notare la bionda diva. «Mi aspetti davanti al bar, tra dieci minuti e per cortesia, si dia una rasatina!»
Gallegher lasciò un messaggio a Patsy poiché non la trovò nel suo ufficio poi corse in direzione dei servizi, dove si mise in faccia una crema depilatoria invisibile. Dopo pochi minuti si pulì la crema con una salvietta, pulendosi anche della peluria, e così rimesso in sesto volò per incontrare Silver. Saliti suH'aerotassì si abbandonarono sugli strapuntini, fumando e guardandosi muti e indifferenti.
«Beh?» sbottò per primo Gallegher dopo un po'.
«Jimmy Tone mi aveva fissato un appuntamento stasera. Così so dove si trova!»
«Allora?»
«Senta un po', stasera ho fatto un sacco di domande in giro. È strano che un estraneo sia ammesso nell'amministrazione sacra della Vox-View, così ho indagato e ho chiesto: "Chi è Gallegher?"»
«Ha scoperto niente?»
«Sì, e mi ha acceso qualche lampadina, così il vecchio Brock le ha chiesto aiuto eh? Indovino anche perché!»
«Ergo?»
«Senta, io amo stare sempre su solida roccia,» disse Silver. «La Vox-View sta per affondare nel fango e la Sonatone resterà sola, a meno che...»
«A meno che io non trovi una soluzione.»
«Proprio così, ma io vorrei sapere da che parte stare, certo lei saprà darmi un parere qualificato no? Chi vincerà?»
«Ah, lei intende schierarsi col vincitore eh?» fece lo scienziato. «Ma figliola cara, come fa a pensarla così? Non ha ideali, fede nella verità? Mai sentito parlare di etica e scrupoli?»
Silver era illuminata di gioioso splendore.
«E lei?»
«Beh, sì, in genere sono troppo ubriaco per capire l'esatto significato, sa, talvolta il mio inconscio è così amorale e una volta che l'ha spuntata, anche tanto logicamente ferreo!»
La bionda diva buttò la sigaretta nell'East River. «Allora, mi consiglierà chi sarà il vincitore?»
«Sarà il trionfo della giustizia» dichiarò Gallegher. «Succede sempre, ma io penso che la verità sia una variabile e così siamo daccapo di nuovo. Va bene, Silver, se vuol stare sul sicuro stia sempre dalla mia parte.»
«Ma lei, da che parte sta?»
«Mah, sa Dio,» rispose cupo Gallegher. «Certo a livello di coscienza sono dalla parte di Brock, ma forse il mio inconscio è abbastanza svincolato e indipendente su questo tema. Comunque vedremo cosa succede.»
Silver, chiaramente insoddisfatta, tacque. Il tassì si buttò sul tetto del Castle Club atterrando con garbo pneumatico. La sede del club era al piano inferiore, una sala immensa a forma di mezzo melone rovesciato. Le sedie erano su piattaforme trasparenti alzabili e abbassabili a piacere del cliente. I beveraggi erano serviti dai camerieri su piccoli montacarichi. Il locale aveva una atmosfera da romanzo anche se non c'era alcun apparente motivo per quell'arredamento così strano. Qualche cliente grasso e impacciato cadeva dalla piattaforma. Ma da qualche tempo sotto la piattaforma la direzione aveva fatto stendere delle reti trasparenti per prudenza.
I due Tone erano quasi al soffitto e stavano bevendo con due vamp. Gallegher seguì Silver verso un montacarichi di servizio, ma durante il tragitto verso l'alto chiuse gli occhi, mentre nello stomaco i liquori ingeriti nel giorno ballavano orribilmente. Alla fine riuscì a muoversi malfermo e guardando la testa calva di Elia Tone. Arrivato al loro tavolo si lasciò cadere su una sedia e tendendo rapacemente la mano al bicchiere di Jimmy lo scolò con voracità.
«Ehi, accidenti!» imprecò Jimmy Tone.
«Gallegher!» disse Elia. «Guarda, c'è anche Silver, oh ma che sorpresa! State con noi?»
«Solo stasera,» rispose Silver.
Gallegher ritrovata la padronanza si mise a studiare i due Tone. Jimmy era un fustacchione bruno, volgare e muscoloso, con la mascella volitiva e un risolino sardonico. Il padre era una specie di incrocio felice tra Nerone e un caimano.
«Si stava festeggiando, buone notizie» si giustificò Jimmy. «Come mai hai cambiato idea Silver? Non dovevi lavorare questa sera?»
«Gallegher voleva parlarvi, non so il motivo.»
Gli occhi già gelidi di Elia Tone si ghiacciarono completamente. «Oh, per quale motivo?»
«Ho sentito che avrei firmato una specie di contratto con voi» rispose lo scienziato.
«Ah sì, eccovi la fotocopia. Qualcosa che non va?»
«Un momento, un momento.» Gallegher si buttò a picchio sul documento, la firma sembrava la sua. Maledetto il robot!
«È falso!» dichiarò alla fine.
Jimmy si mise a sghignazzare.
«Oh, certo, spiacente, compare, ma è inutile giocare questa commedia. Lei ha firmato questo contratto davanti a dei testimoni.»
«Mh...» lo sforzo di Gallegher era evidente. «Non mi crederete vero se vi dicessi che la mia firma è stata ottimamente imitata da un robot.»
«Ah-ah!» sottolineò Jimmy Tone.
«Vi ha ipnotizzati per farvi credere di essere me.»
Il vecchio Tone mosse la lucida biglia. «Davvero, Gallegher, non riesco a pensare che questa storia sia vera. Un robot non è in grado di...»
«No, Joe, è in grado.»
«Beh, allora lo dimostri, lo dimostri a un tribunale, se può naturalmente.» Elia ridacchiava piano. «Così potrebbe avere una sentenza favorevole.»
Gallegher strinse gli occhi. «No, non stavo pensando a questo, però, ho sentito che lei mi avrebbe offerto centomila in contanti, e un salario alla settimana.»
«Certo, intelligentone!» rispose Jimmy. «Ma lei ha detto che dodicimila le erano più che sufficienti, così le abbiamo versato questa cifra. Le pagheremo s'intende una gratifica per ogni nuovo apparecchio inventato da lei per la nostra compagnia.»
Gallegher si alzò. «Beh, le dirò nemmeno al mio inconscio piace questo tipo di comportamento,» sottolineò per beneficio della diva. «Su, andiamocene.»
«No, io resto.»
«Pensi alla barricata,» l'ammonì lo scienziato. «Comunque può fare come crede. Io me ne vado.»
«Ehi, senta Gallegher!» urlò Elia Tone. «Guardi che lei lavora per noi, non lo dimentichi. Se sapremo che sta aiutando in qualche modo Brock la porteremo in tribunale prima di aver il tempo di dire bah!»
«Ma no?»
I Tone non si degnarono di rispondere a Gallegher il quale trovò il montacarichi con notevole sforzo e ridiscese al piano. Ora doveva trovare Joe, il robot.
Dopo un quarto d'ora Gallegher faceva il suo ingresso nel laboratorio. Tutte le luci erano accese e i cani in giro stavano ululando. Joe stava davanti allo specchio e cantava alla frequenza ultrasonica.
«Ora vado a prendere un bastone e ti faccio a brandelli,» annunciò cupo Gallegher. «Comincia a pregare, dannato intruglio meccanico. Ora ti faccio a pezzi.»
«Certo, fallo, su annientami!» lo provocò Joe. «Non mi importa nulla. Sei solo invidioso della mia bellezza.»
«La tua bellezza?»
«Già, non puoi apprezzarlo tu, hai solo sei sensi!»
«Cinque, prego.»
«Sei, ma io ne ho molti di più, certo solo io posso comprendere e apprezzare il mio splendore, ma anche tu sei in grado di poter vedere il mio fascino anche se solo in parte.»
«Sembri un vagone merci pieno di ferraglie!» ringhiò lo scienziato.
«Che udito rozzo che hai. Io ho un orecchio ipersensibile. Non puoi capire il valore tonale della mia voce, adesso, zitto! Non mi piace parlare, stavo ammirando il movimento dei miei meccanismi.»
«Sì, restatene nel tuo eden di follia, ma aspetta che io trovi un bastone e ti sistemo io!»
«D'accordo, su, annientami. Che me ne importa?»
Gallegher cadde sulla sua branda, guardando sconvolto il torso trasparente del robot. «Senti, perché diavolo hai firmato quel contratto della Sonatone a mio nome?»
«Te l'ho spiegato, così Kennicot non tornerà a disturbarmi i circuiti.»
«Razza di egoista che non sei altro! Beh, mi hai davvero sistemato per le feste. Se non riesco a dimostrare che sei stato tu a firmare quel contratto i Tone mi mangeranno vivo. Ma adesso mi aiuterai. Vieni in tribunale e dimostrerai le tue facoltà ipnotiche. Devo dimostrare al giudice che eri tu e non io a firmare!»
«No» rispose Joe. «Perché mai dovrei?»
«Tu mi hai messo nei guaì!» ringhiò Gallegher. «E tu me ne tirerai fuori, chiaro?»
«Ma perché?»
«Perché, perché, bene, è doveroso da parte tua...»
«Lo sai che l'etica non è compatibile ai robot,» rispose pazientemente Joe. «Non mi interessa nulla della semantica. Non intendo sprecare così il mio tempo quando posso dedicarmi interamente alla contemplazione della mia bellezza. No, non mi sposterò da questo specchio!»
«Va bene, voglio proprio vedere!» urlò lo scienziato furibondo. «Ti spezzo, ti sbriciolo!»
«Va bene, fallo, non me ne importa.»
«Ah no?»
«Quanto sei idiota col tuo istinto di sopravvivenza,» ironizzò il robot. «Per voi uomini sarà anche un istinto necessario, ma certo delle creature così brutte si ucciderebbero per la vergogna se non avessero questo benedetto istinto di autoconservazione!»
«Che ne dici se ti frego lo specchio?» chiese lo scienziato tremulo e speranzoso.
Joe in risposta allungò gli occhi telescopici. «Ma davvero pensi che mi serva uno specchio? Ma posso vastenarmi lo stesso.»
«Pazienza, non voglio impazzire per te. Un robot deve fare qualcosa, hai capito? Qualcosa di utile naturalmente.»
«Certo, ma io sono utile. La bellezza è di utilità!»
Gallegher cercava freneticamente una soluzione e nello sforzo chiuse gli occhi. «Aspetta, se invento un nuovo amplificatore per Brock, i Tone rivendicheranno i loro diritti sulla nuova invenzione. Devo trovare una scappatoia legale per mettermi a lavorare per Brock o...»
«Guarda!» esclamò gracido Joe. «Girano, che meraviglia!» Guardava affascinato i meccanismi che vorticavano nella sua corazza trasparente.
Gallegher era in preda al furore più nero. «Maledetto robot!» digrignò. «Ma lo trovo io il sistema per farti piegare, ora me ne vado a letto.» Si alzò e spense le luci per fare un dispetto al robot.
«Poco male,» disse Joe. «Mi vedo anche a luci spente!»
Gallegher si sbatté la porta alle spalle e nel silenzio totale disceso sul laboratorio cominciò a canticchiare una nenia.
Nella cucina di Gallegher una intera parete era occupata dal refrigeratore, pieno soprattutto di liquori e di lattine di una birra importata, usata in occasione delle più importanti sbronze, come aperitivo.
Il giorno dopo, Gallegher si svegliò desolato, con gli occhi semichiusi, e cercò un succo di pomodoro, ma dopo una sorsata preferì passare al whisky. Ormai da una settimana era perennemente sbronzo, per cui dovette depennare la birra, poiché lui lavorava sempre a stadi progressivi. La servocucina gli servì in tavola una colazione in confezione sigillata e Gallegher cominciò a mangiucchiare distrattamente una fiorentina.
Non c'erano altre alternative, doveva rivolgersi a un tribunale. Non riusciva a capire la psicologia di Joe ma un giudice sarebbe trasalito alla vista delle mirabili qualità del robot. Certo legalmente un robot non poteva testimoniare ma era sufficiente che fosse considerato in possesso di facoltà ipnotiche e il contratto maledetto sarebbe stato da considerarsi annullato.
Gallegher si sistemò al visor cominciando a pensare al piano. Anche Harrison Brock doveva avere i suoi bravi appoggi politici. Infatti l'udienza venne fissata per lo stesso giorno. Ma sul futuro solo Dio e Joe avrebbero potuto pronunciarsi.
Dopo parecchie inutili ore di meditazione intensa ma infruttuosa Gallegher non era ancora riuscito a venire a capo di come persuadere il robot. E per di più non ricordava per quale motivo l'aveva costruito.
A mezzogiorno spaccato entrò nel laboratorio.
«Senti razza di idiota,» cominciò Gallegher. «Devi venire con me in tribunale, subito!»
«No, non vengo.»
«Okay.» Gallegher aprì la porta ed entrarono due omaccioni in tuta che tenevano una barella. «Su, ragazzi, caricatelo!»
Ma non era affatto tranquillo come faceva sembrare, non conosceva affatto i poteri di Joe, né le sue capacità potenziali. Il robot non era molto grande perciò nonostante le grida e i tentativi di sfuggire, gli omaccioni lo caricarono facilmente in barella dove lo avvolsero in un involucro adesivo.
«Fermi! Non potete farlo! Lasciatemi, capito? Lasciatemi!»
«Fuori!» ordinò perentorio Gallegher.
Joe che seguitava a protestare energicamente fu portato fuori e caricato su un aerofurgone. Improvvisamente il robot si calmò e si perse in contemplazione del cielo. Gallegher si sedette vicino al suo robot mentre il furgone decollava.
«Beh, che te ne pare?»
«Vedrai,» rispose il robot disfatto. «Mi avete sconvolto. Così non sono riuscito a ipnotizzarvi, sai bene, che potrei farlo senza fatica. Potrei farvi correre dietro le vostre code, abbaiando come cani.»
Gallegher provò un gelido tremito. «Meglio di no.»
«Sta tranquillo, non lo farò, mi costerebbe la dignità personale. Me ne starò qui a guardarti, io non ho bisogno dello specchio, posso vastenare la mia bellezza anche senza specchi.»
«Senti,» esalò Gallegher. «Andiamo in tribunale, ci sarà tanta gente, tutti ti guarderanno ammirati, e lo saranno ancora di più se farai vedere come puoi ipnotizzare gli uomini. Come hai fatto con i due Tone, ricordi?»
«Non mi interessa per nulla l'ammirazione della gente,» rispose Joe. «Non mi serve una conferma per la mia bellezza. È solo fortunato chi mi vede. Taci, e guarda i miei circuiti se ti interessano.»
Gallegher guardando i circuiti di Joe sentiva un odio impotente dentro di sé, un odio che non lo aveva ancora abbandonato quando furono in tribunale. I facchini scaricarono il robot con prudenza e lo sdraiarono su una tavola, dove, dopo una discussione, fu catalogato come «reperto A».
La sala delle udienze era affollatissima, c'erano anche Elia e Jimmy Tone, spiacevolmente sicuri, Patsy Brock e il padre invece preoccupati. Silver O'Keefe, prudentemente, era a metà distanza tra la Vox-View e la Sonatone. Il giudice, Hansen, sembrava un duro, ma Gallegher sapeva che aveva fama di onesto. E non era certo poco.
Hansen guardò Gallegher.
«Non perdiamo tempo, ho letto la sua presentazione. Ora la questione è riassunta da un sol punto; lei ha firmato o no un contratto con la Compagnia di spettacoli Televisivi Sonatone?»
«È così, Vostro Onore.»
«È una faccenda ex officio da una angolazione tecnica. Se le due parti lo richiedono andrà confermata per appello. In caso contrario la sentenza verrà confermata tra dieci giorni.»
Era il nuovo procedimento, piuttosto gradito anche perché si risparmiava molto tempo. Inoltre gli avvocati erano stati ultimamente screditati da certi scandali.
Il giudice chiamò i Tone, e li interrogò. Poi toccò a Brock. Il proprietario della Vox-View era preoccupato, ma fu pronto nella risposta.
«Lei ha concluso un affare con l'appellante, una settimana fa?»
«Sì, il signor Gallegher si è impegnato a fare un certo lavoro per me...»
«Esiste un contratto scritto?»
«No, è stato solo un impegno orale.»
Hansen guardò Gallegher pensieroso. «Forse l'appellante era chiaramente in stato di ubriachezza allora? Mi risulta che lo sia quasi sempre.»
Brock annaspò. «Beh, non l'ho analizzato certamente, non potrei asserirlo con certezza.»
«Ha bevuto liquori in sua presenza?»
«Beh, non so se fossero liquori...»
«Ah, se il signor Gallegher beveva non poteva che trattarsi di liquori. Quod erat demonstrandum. Il signor Gallegher ha lavorato una volta con me, beh, non ci sono prove legali a conferma dell'accordo concluso tra lei e il signor Gallegher. Invece, il convenuto della Sonatone ha un contratto scritto, e la firma è stata comprovata come autentica.»
Hansen accennò a Brock di tornare al suo posto. «Ora lei signor Gallegher. Si accomodi. Il contratto è stato firmato diciamo circa alle otto di ieri sera. Lei dice di non averlo firmato?»
«Esatto. Non ero nemmeno nel laboratorio ieri sera a quell'ora.»
«E allora dov'era?»
«In città.»
«Ha dei testimoni a favore di questa asserzione?»
Gallegher rifletté un istante, senza fortuna.
«Benissimo, allora, secondo i convenuti ieri sera alle otto lei ha firmato nel suo laboratorio il contratto in questione. Lei nega e afferma di essere stato sostituito dal Reperto A, sotto ipnosi, che avrebbe inoltre falsificato la sua firma. Alcuni esperti da me consultati sono d'accordo nel negare tali poteri ai robot.»
«No, il mio robot è un'altra cosa.»
«Benissimo, allora mi faccia ipnotizzare dal suo robot, in modo che io creda di essere lei o chiunque altro. Mi dimostri le sue effettive capacità, nel modo che preferisce.»
«Va bene, ci provo,» mormorò Gallegher scendendo dal banco di testimonianza. Si avvicinò al tavolo dove il Reperto A giaceva tutto avvolto nel suo involucro e pregò.
«Joe?»
«Sì?»
«Mi senti?»
«Certo.»
«Senti, puoi ipnotizzare il giudice Hansen?»
«Va via,» rispose il robot. «Sto ammirandomi.»
Gallegher sentì dei sudori freddi per il corpo. «Senti, non è grancosa che ti chiedo; devi solo...»
Joe distolse gli occhi. «Non posso ascoltarti,» rispose piano. «Sto vanestando.»
Dopo dieci minuti si sentì la voce del giudice.
«Allora, signor Gallegher?»
«Vostro Onore, ho bisogno di altro tempo. Sono sicuro che ci riuscirò a convincere questo Narciso vanaglorioso a dimostrare che dico la verità. La prego, mi dia dell'altro tempo.»
«La Corte non vuole essere ingiusta,» scattò Hansen. «Quando lei potrà dimostrarmi che il Reperto A ha facoltà ipnotiche, allora riesaminerò il caso. Intanto il contratto è da considerarsi valido e lei lavorerà per la Sonatone e non per la Vox-View. Il caso è chiuso.»
Il giudice se ne andò, mentre i due Tone fulminavano attorno sguardi cattivi e poi uscirono anch'essi con Silver che aveva definitivamente deciso da che parte stare. Gallegher guardò Patsy e scrollò le spalle disperato.
«Beh...»
Patsy abbozzò un tentativo malriuscito di sorriso.
«Ha provato, e non ha funzionato. Non sapevo che fosse così difficile. Neanche lei avrebbe potuto risolvere il nostro problema.»
Brock si deterse la faccia rotonda dal sudore, barcollando. «Sono rovinato, oggi a New York sono stati inaugurati altri sei cinema-fantasma. Dio mio, sto impazzendo, sono morto.»
«Vuoi farmi sposare Jimmy Tone?» chiese ironicamente Patsy.
«No, se non prometti di avvelenarlo durante il banchetto nuziale. Quei dannati non devono farcela, devo trovare una soluzione.»
«Se non l'ha fatto Gallegher, come puoi farlo tu?» chiese la ragazza. «Ma ora che si fa?»
«Me ne torno nel laboratorio,» rispose lo scienziato. «In vino veritas. Ho esordito da ubriaco e se riuscirò a sbronzarmi abbastanza forse troverò la soluzione. In caso contrario vendete pure la mia carogna.»
«Okay,» ribadì Patsy trascinando via il padre. Gallegher guidò sospirando l'operazione di sistemazione del robot sul furgone, perso in pensieri funebri e desolanti.
Un'ora dopo Gallegher era disteso nella branda bevendo alla cannula del mobil bar, guardando con odio Joe che si pavoneggiava allo specchio cigolando con la sua straziante voce. La sbronza prometteva evoluzioni giganti. Gallegher non sapeva se un uomo poteva superarla ma voleva resistere fino alla fine, o avrebbe trovato la soluzione o sarebbe morto nel tentativo.
Nel suo subconscio c'era la soluzione, ma perché aveva costruito Joe? Non certo per confortare un personale complesso narcisistico, la ragione doveva essere un'altra, più profonda, più logica, avvolta dai fumi dell'alcool.
Se fosse riuscito a sviscerare la incognita, avrebbe controllato il robot, sì, l'incognita era la chiave di volta. Il robot era impazzito. Se avesse scoperto la ragione per cui l'aveva costruito avrebbe potuto ripristinarlo alla sua primitiva razionalità. Solo l'incognita avrebbe potuto ricondurre Joe alla ragione.
Gallegher ingollò un Drambuie ad alto potenziale. Whoosh!
Vanitas vanitatum. Già, ma come trovare l'incognita? Per deduzione, induzione, osmosi? Gallegher si aggrappava ai suoi pensieri che gli volavan via, dal torpore del liquore. Ma cosa era successo una settimana prima?
Gallegher era alle prese con la birra quando era entrato Brock, Brock se ne era andato e Gallegher aveva costruito Joe. La sbronza da birra non era come le altre, adesso doveva bere i liquori sbagliati, già, sicuro. Gallegher si alzò e ingollò una dose massiccia di thiamina per ritrovare la sobrietà e si diresse al frigorifero per prendere una quantità di lattine di birra, che sistemò nel refrigeratore vicino alla branda. La birra schizzò il soffitto quando aprì la lattina.
Il robot doveva sapere che compito aveva, ma non voleva svelarlo. Se ne stava davanti allo specchio a guardarsi i suoi ingranaggi nel corpo trasparente.
«Joe.»
«Non seccarmi. Sto contemplando la bellezza.»
«Tu sei brutto.»
«No, non ti piace il mio tarzeel?»
«E cos'è il tarzeel?»
«Già, dimenticavo,» si rammaricò Joe. «Non puoi saperlo. Vedi, io mi sono aggiunto il tarzeel subito dopo che mi hai costruito. Affascinante.»
«Già.» Le lattine vuote si ammontichiavano, una sola casa in Europa produceva birra in lattine invece di usare i plastibulbi, e Gallegher preferiva le lattine. Avevano un altro sapore. Ma perché aveva creato Joe? Gallegher non lo sapeva, ma Joe sì. E il suo subcosciente? E il subcosciente di Joe?
Ma un robot ha un subconscio? Considerato il fatto che ha un cervello...
Gallegher pensava di somministrare della scopolamina a Joe, ma era impossibile, ma doveva indurre il subconscio del robot a rivelarsi.
Forse con l'ipnosi, ma Joe non era suscettibile all'ipnosi. Era troppo sveglio, a meno che. Sì, autoipnosi.
Gallegher ingollò un'altra lattina, ora le idee gli si stavano schiarendo. Joe non poteva leggere nel futuro, aveva sì dei sensi strani ma sempre lungo il binario della logica e delle leggi della probabilità. Ma Joe aveva un punto debole, la vanità.
Forse era la via giusta per trovare la sospirata soluzione.
«Senti, Joe, non sembri per niente bello,» azzardò Gallegher.
«Che mi importa? Io sono bello e lo so perfettamente e ne sono appagato.»
«Già, ho i sensi limitati io, non posso capire completamente le tue qualità. Ma ora ti vedo diversamente. Sono ubriaco. Ora il mio ego profondo ha la meglio e posso apprezzarti su entrambi i piani, quello conscio e quello inconscio. Chiaro?»
«Sei proprio fortunato,» rispose Joe.
Gallegher chiuse gli occhi. «Tu capisci meglio di quanto faccia io. Ma la tua valutazione non è assoluta.»
«Perché no? Io mi vedo come sono.»
«Con la massima comprensione e apprezzamento?»
«Certo,» disse il robot. «Certo, perché no?»
«Sia a livello conscio che a livello inconscio? Forse il tuo subcosciente ha sensi differenti, magari più sensibili, Ci sono parecchie differenze, nel mio modo di pensare, quando sono ubriaco o ipnotizzato o comunque quando il mio inconscio è condizionato.»
«Oh oh,» fece il robot guardando lo specchio. «Oh!»
«Non sai cosa ti perdi a non ubriacarti!»
Joe parlò con voce più cigolante del solito.
«Il mio subconscio, già così non ho mai potuto apprezzare la mia bellezza, dev'essere proprio un peccato.»
«Beh, pazienza, lasciamo perdere,» rispose Gallegher. «Tu non puoi liberare il tuo inconscio.»
«Ma sì che posso,» esplose Joe. «Certo, posso auto-ipnotizzarmi.»
Gallegher restò con gli occhi chiusi. «Ma no? Sei davvero capace?»
«Certo, ed è quello che farò, così vedrò in me delle sovrumane bellezze di cui ignoro l'esistenza. Una gloria ancora più grande. Avanti.»
Joe fuoriuscì gli occhi telescopici divaricandoli per opporli tra di loro. Seguì un silenzio lunghissimo.
Infine Gallegher si decise.
«Joe?»
Il robot non rispose.
«Joe!»
Nessuna risposta nemmeno stavolta.
Lontano i cani iniziarono il loro ululato corale.
«Senti, parla e fatti sentire.»
«Sì,» rispose Joe con una nota nuova nella sua voce.
«Sei ipnotizzato?»
«Sì.»
«Ti trovi bello?»
«Ah sì, molto più di quanto ho mai sognato.»
Gallegher non volle contraddirlo. «Ora il tuo subcosciente ha il sopravvento?»
«Già!»
«Perché ti ho costruito?»
Joe non rispose e Gallegher si inumidì le labbra con la lingua e provò di nuovo.
«Joe, ti prego, rispondi, sei dominato dal tuo subconscio, ora, vero? E allora perché ti ho creato?»
Ancora nessuna risposta da parte del robot.
«Senti Joe, ascolta, torna indietro, ti ricordi quando ti ho creato? Cos'è accaduto?»
«Bevevi birra,» emise Joe. «Eri inguaiato con l'apriscatole. Hai detto che dovevi prenderti un apriscatole più grande e funzionale. Allora hai creato me.»
Gallegher quasi cadde dalla branda.
«Cosa?»
Il robot si fece avanti, prese una lattina e l'aprì facilmente e abilmente, senza far schizzare la birra. Ecco cos'era Joe, un apriscatole perfetto.
«Ah,» mormorò Gallegher. «Ecco, cosa può capitare a uno scienziato approssimativo come me. Ho costruito il robot più complicato del mondo solo per...»
Non poté finire la frase perché Joe si svegliò di botto. «Che è successo?» chiese.
Gallegher lo guardò a lungo. «Apri la lattina,» ordinò.
Il robot dopo una pausa brevissima, obbedì. «Ah, l'hai saputo alla fine? Beh, adesso sarò il tuo schiavo vero?»
«Accidenti a te! Ecco l'incognita, il catalizzatore. Sei finalmente sintonizzato, ora fai il lavoro per cui sei stato creato.»
«Già,» ammise filosoficamente Joe. «Beh, tanto potrò lo stesso ammirare la mia bellezza quando non dovrò servirti.»
Gallegher emise un grugnito. «Senti, idiota, mega-apriscatole, ascolta. Adesso che ne dici se ti trascino in tribunale e ti ordino di ipnotizzare il giudice? Lo faresti?»
«Per forza, ormai sono condizionato ad obbedire ai tuoi comandi. Fino ad ora dovevo solo ubbidire a un solo comando, a fare il lavoro per cui sono stato costruito. Ma fino a che non mi hai ordinato di aprire una lattina, ero autonomo. Ora devo ubbidirti in tutto e per tutto.»
«Già,» esalò Gallegher. «Grazie a Dio. O sarei impazzito nel giro di una settimana. Ora mi sbarazzerò di quel contratto con la Sonatone. Poi mi rimane da risolvere il problema di Brock.».
«Ma l'avevi risolto!» osservò Joe.
«Che?»
«Sì, quando mi hai costruito. Avevi parlato con Brock e hai incorporato la soluzione del problema nel mio corpo. Forse hai agito per istinto.»
Gallegher allungò la mano a una lattina. «Su, sputa, qual è la soluzione?»
«Gli infrasuoni,» spiegò paziente Joe. «Mi hai costruito con la capacità di emettere certe vibrazioni infrasuoniche che Brock deve far trasmettere dai suoi canali televisivi, a intervalli irregolari.»
Anche se sono inudibili gli infrasuoni sono avvertibili. Danno un lieve disturbo senza motivo che però aumenta fino al livello di terrore cieco e immotivato. Quando gli infrasuoni agiscono nello stesso tempo del Fascino del Collettivo, non c'è che un solo risultato.
Chi aveva a casa un televisore Vox-View non ne risultarono molto disturbati. Era solo questione d'acustica, i gatti e i cani ululavano, mentre le famiglie sedute nelle loro poltrone del salotto non avvertirono niente. Il suono era troppo poco amplificato per risentirne spiacevolmente.
Nei cinema-fantasma invece dove trasmettevano televisori Vox-View con amplificatori Magna i risultati furono ben diversi.
Il pubblico iniziò ad avvertire un lieve malessere generale che aumentava poco a poco. Qualcuno cominciò a urlare generando una fuga generale. Gli spettatori avvertivano la paura ma ignoravano di cosa. Dovevano solo uscire e in fretta.
La fuga dai cinema clandestini divenne frenetica quando la Vox-View inserì gli infrasuoni durante uno spettacolo. Non si sapeva il motivo, solo Gallegher, Brock e due tecnici fidatissimi lo sapevano.
Dopo un'ora fu inserita un'altra emissione a infrasuoni e si verificò un'altra massiccia fuga.
In poche settimane i cinema-fantasma erano stati quasi interamente disertati. La televisione in casa era in salvo! Le vendite del Vox-View andarono alle stelle.
Ormai nessuno voleva più sentire parlare dei cinema-fantasma. Ma in pochissimo tempo inaspettatamente non si volle più sentire parlare nemmeno dei cinema Sonatone legali, tanto il condizionamento aveva funzionato.
Gli spettatori ignoravano da cosa era provocato il panico agli spettacoli clandestini. Generalmente il terrore cieco e irrazionale che provavano veniva associato ad altri fattori, come la repulsione per la folla o la claustrofobia. Una certa Jane Wilson una sera, mentre guardava uno spettacolo clandestino, fuggì con gli altri appena inserita l'emissione di infrasuoni.
La sera successiva andò nel Sonatone Bijou e durante una sequenza drammatica, guardò nel bel mezzo della folla impotente, al soffitto, atterrita dal pensiero che le crollasse addosso.
Sentì che doveva scappare e subito.
Jane urlò e questo diede il via alla fuga. Tra gli altri c'erano parecchi spettatori reduci da esperienze infrasuoniche. Non ci furono feriti nella fuga poiché secondo le leggi di sicurezza c'erano nel cinema ampie porte di sicurezza. Fu evidente che il pubblico era condizionato dagli infrasuoni e cercava di evitare l'abbinamento folla-cinema. Era una associazione psicologica.
In quattro mesi non c'era più un sol cinema clandestino e i supercinema legali avevano chiuso per carenza di pubblico. I Tone non erano certo soddisfatti, ma quelli del cinema Vox-View scoppiavano dalla gioia.
Ma non Gallegher il quale riscosso un super-assegno da Brock, aveva telegrafato in Europa ordinando una quantità abnorme di lattine. Se ne stava sdraiato sulla sua branda riflettendo sulle sue disgrazie, assaporando un Highball direttamente dalla cannula. Joe era allo specchio a guardarsi le rotelle.
«Joe,» chiamò lo scienziato.
«Già, che posso fare per te?»
«Oh, nulla, nulla.»
Gallegher si tirò fuori di tasca un telegramma spiegazzato e lo rilesse ancora. La fabbrica di birra aveva deciso una novità: d'ora in poi la birra sarebbe stata confezionata in plastibulbi in ottemperanza alle nuove norme e alle richieste. Non ci sarebbero più state lattine.
In quell'epoca non si usava più inscatolare né cibi né bevande. Adesso nemmeno più la birra in lattina.
E allora un robot condizionato a fare l'apriscatole che cosa poteva mai fare ora?
Gallegher sospirando si preparò un altro cocktail, piuttosto forte mentre Joe si risistemava davanti allo specchio.
Il robot estrasse gli occhi telescopici, li divaricò e liberò il proprio inconscio con l'autoipnosi, come faceva spesso da quando aveva scoperto che poteva così apprezzare meglio e totalmente la propria bellezza.
Gallegher sospirò di nuovo e i cani attorno elevarono il loro coro. «Ah, insomma!»
Dopo un altro cocktail si sentì risollevato. Ora sì che poteva cantare «Frankie e Johnnie». Anzi poteva cantare assieme al robot. Lui baritono e Joe ultra-suonico, dalla voce inudibile. Un'emozione rara!
Dieci minuti dopo si sentiva la voce di Gallegher che intonava un duetto col suo apriscatole.
Symbiotica
Symbiotica
di Eric Frank Russell
Astounding, ottobre
Il defunto Eric Frank Russell era uno scrittore pieno di talento che sembrava uscire sempre con delle idee nuove. Forse la sua opera più conosciuta è il romanzo Sinister Barrier, basato sui concetti di Charles Fort e che apparve nel primo numero di Unknown nel 1939. Nel 1956, Russel vinse anche un Premio Hugo per il suo racconto Allamagoosa.
Symbiotica fa parte del gruppo di quattro storie del ciclo di «Jay Score» raccolte poi in volume col titolo Men, Martians and Machines, nel 1956. (Per il racconto Jay Score, vedi il volume III, 1941 di questa serie.) Sebbene in biologia esistesse da tempo il concetto di simbiosi (il concetto cioè che in natura esistano delle specie che godono fra di loro di un legame particolare sotto molti aspetti benefico, il racconto non riscosse un vasto successo fino agli Anni Sessanta quanto la gente cominciò a occuparsi seriamente di ecologia. Symbiotica illustra brillantemente questo concetto e oltre a tutto è anche una bellissima storia.
(Marty ha parlato di Sinister Barrier e questo mi ricorda una cosa... quando a metà degli Anni Sessanta lessi gli articoli di Charles Fort sulle pagine di Astounding Stories, non li potevo proprio soffrire. Tanto per darvi un'idea, dirò che Fort era il von Daniken del tempo e si serviva di brani tratti dai giornali senza il minimo discernimento critico per suffragare le sue teorie più strampalate, tanto da riuscire a influenzare un gruppo di gente, i Fortiani, per il resto persone presumibilmente intelligenti, fino a far accettare loro le sue idee. Russel fu appunto una di queste persone e, come ha detto Marty, Sinister Barrier era ispirato ai concetti di Fort. Tuttavia, nonostante le mie antipatie per le teorie fortiane, Sinister Barrier mi parve, al tempo in cui lo lessi, la più bella e eccitante storia che avevo mai letto. Il che dimostra che razza di bravo scrittore fosse Russel. Tanto bravo da riuscire a farmi trangugiare Fort... e per di più con entusiasmo. - I.A.)
I
Avevano dato ordine alla Marathon di andare a indagare su un pianeta nei pressi di Rigel e ciò che alcuni di noi avrebbero proprio voluto sapere era come diavolo i nostri astronomi terrestri poteva andare a scegliersi dei campioni a distanze così enormi. Nell'ultima spedizione ci avevano procurato un lavoretto piuttosto impegnativo quando ci avevano spediti su quel mondo meccanico col suo vicino pieno d'acqua nei pressi di Boote. Il Marathon, una astronave Flettner di nuova concezione, era un vero gioiellino e nella nostra regione di spazio non aveva rivali. Quindi secondo noi, la soluzione del mistero stava nel fatto che gli astronomi fossero riusciti a mettere le mani su qualche strumento altrettanto rivoluzionario.
Comunque sia, avevamo coperto il tragitto principale secondo le istruzioni e ormai eravamo abbastanza vicini da vedere che ancora una volta gli astronomi avevano fatto di nuovo centro quando avevano affermato che qui c'era un pianeta probabilmente in grado di ospitare la vita. Ben lontano, sul lato di tribordo, Rigel risplendeva come una lontana fornace ed era a circa trenta gradi sopra l'orizzonte, in quel momento, naturalmente sto parlando dell'orizzonte dell'astronave che è relativo al piano orizzontale dell'astronave e il cosmo, che gli piaccia o no, deve adattarsi a questo nostro riferimento convenzionale. Ma l'obiettivo primario della nostra astronave non era il lontano Rigel, bensì un suo fratellino minore, di ben poco più piccolo e più pallido del vecchio sole della Terra. Più oltre c'era anche due altri pianeti; un terzo l'avevamo visto dall'altra parte del sole. Così in totale erano quattro, ma, tre di essi apparivano sterili come la mente di un pescione venusiano, mentre questo, il più interno, sembrava davvero interessante.
Scendemmo di prua, parlando, e mi sentii rimescolare le budella vedendo come quel mondo ingrandiva rapidamente dai portelli d'osservazione. Una volta avevo fatto un viaggio a bordo della Upsydaisy, che procedeva a serpentina senza un criterio preciso, e l'esperienza mi era servita per farmi le «gambe da spazio» oltre ad abituarmi a vivere in sospensione per milioni di miglia di nulla assoluto, ma a quel punto pensai che mi ci sarebbero voluti forse un paio di secoli per abituarmi ai folli decolli e atterraggi di questi trabiccoli Flettner. Il giovane Wilson mormorò qualcosa e capii che stava seguendo la sua pia abitudine di pregare per la salvezza delle sue preziose lastre fotografiche. A giudicare dalla sua espressione che tradiva un'intima sofferenza spirituale, si sarebbe detto che quelle dannate cose se le fosse addirittura sposate. Poi atterrammo con fragore e l'astronave scivolò sul ventre.
«Io non mi lamenterei,» dissi a Wilson. «Quelle cose non servono certo per prepararti un bel pollo arrosto e neppure una bella torta di fragole, di quelle da fare venire l'acquolina in bocca. Mentre si liberava dalle cinghie di sicurezza, il ragazzo mi guardò con espressione acida e grugnì: «Ti piacerebbe se sputassi sui tuoi disintegratori?»
«Assolutamente no,» sbottai.
«Visto?» ribatté e poi se la squagliò per vedere cos'era sopravvissuto delle apparecchiature.
Io appiccicai il naso al più vicino portello e scrutai fuori dal resistentissimo disco di Permex per dare un'occhiata a quel nuovo mondo. Era verde, un verde così totale e assoluto da essere addirittura incredibile. Il sole, che visto dallo spazio, aveva avuto un colore di primula, adesso aveva assunto una tinta verde estremamente chiara e emanava un fascio di luce giallo-verde. Il Marathon era atterrato in una grande radura in mezzo a una grandiosa foresta e la radura era coperta di erba verde, arbusti, arboscelli e insetti. La foresta invece era una massa intricatissima di vegetali il cui colore andava da un leggero verde argento a un verde cupo e lucente che tirava quasi al nero. A un certo punto mi raggiunse Brennand che si fermò accanto a me; il suo viso assunse subito la tìnta verdastra e biliosa della luce che lo illuminava. Sembrava proprio uno di quei morti viventi dei film dell'orrore.
«Bene, ci risiamo.» Distolse la sua attenzione dal portello, mi sorrise e subito dopo cancellò il sorriso dalle labbra. «Ehi, non vomitarmi addosso adesso!»
«Guarda che è la luce!» gli feci notare. «Anche tu sembri uno di quegli affari che galleggiano nelle sentine delle navette lunari.»
«Oh, grazie,» esclamò commosso.
«Ma ti pare.»
Poi rimanemmo lì a guardare fuori dal portello in attesa che ci chiamassero per la riunione che di solito precedeva il primo sbarco dall'astronave. Io contavo appunto sulla mia fortuna per essere estratto tra quelli che sarebbero usciti, e anche Brennand aveva una voglia pazza di andare a piantare i fettoni là fuori, ma la chiamata a rapporto non ci fu.
* * *
Dopo un po', Brennand disse: «Il comandante se la prende comoda. Cos'è che lo trattiene?»
«Non ne ho idea.» Gettai un'altra occhiata alla sua faccia da lebbroso. Faceva davvero schifo. Ma a giudicare dalla sua espressione neanche lui era molto entusiasta della mia bellezza. «Sai che tipo cauto è McNulty. Immagino che l'avventura che ha avuto su Mechanistria l'ha persuaso a contare fino a cento prima di dare un ordine.»
«Sì,» convenne Brennand. «Sarà meglio che faccia un salto a vedere cosa succede.»
E se ne andò per il corridoio. Io non potevo seguirlo, però, perché il mio posto era presso l'armeria. Era impossibile prevedere quando sarebbero venuti a cercare qualcosa e di solito avevano l'abitudine di arrivare di fretta. Brennand aveva appena svoltato l'angolo con aria sconsolata, quando da me piombò dentro la squadra d'esplorazione che strepitava per avere l'equipaggiamento necessario. Erano in sei: Molders, un ingegnere; Jepson, un ufficiale di navigazione; Sam Hignett, il nostro medico negro; il giovane Wilson e due marziani, Kli Dreen e Kli Morg.
«Uh, la solita fortuna, eh?» ringhiai contro di Sam, lanciandogli la pistola a raggi e altra paccottiglia...
«Sicuro, sergente.» I denti bianchissimi di Sam luccicarono sul suo muso nero mentre ghignava per la soddisfazione. «Il comandante dice che nessuno deve uscire a piedi prima che noi abbiamo fatto un giro di ricognizione sulla scialuppa 4.»
Kli Morgan afferrò la sua pistola con un lungo tentacolo guizzante e agitò l'arma del tutto incurante della sicurezza altrui e pigolò: «Passami il mio casco e dallo anche a Dreen.»
«Il casco?» Spostai lo sguardo da lui ai terrestri. «Volete anche voi le tute spaziali?»
«No,» rispose Jepson. «L'aria esterna ha una pressione di sette chilogrammi ed è così ricca d'ossigeno che ti dà la carica peggio della simpamina.»
«Fango,» scattò Kli Morgan. «Sembra fango. A noi dà i caschi.»
Glieli passai. Quei marziani erano così abituati alla pressione atmosferica di poco più di un chilogrammo sul loro pianeta natale che bastava una pressione leggermente superiore per metterli in agitazione. È per questo che si riservava loro l'uso della camera stagna di tribordo in cui la pressione veniva tenuta bassa secondo le loro necessità. Se la pressione era superiore, per un certo tempo riuscivano anche a sopportarla, ma presto o tardi finivano col diventare asociali e si comportavano come se qualcuno avesse scaricato loro addosso tutte le pene del mondo.
Così noi terrestri aiutammo i due marziani ad agganciarsi ermeticamente i caschi e a regolargli l'aria fino al livello che consideravano regolare. Non era la prima volta che li aiutavo in questa operazione, anzi, ma mi faceva sempre un effetto strano, perché non mi pare davvero giusto che ci sia qualcuno che si sente soddisfatto quando deve respirare a brevi sbuffi.
Jay Score entrò col suo passo agile nell'armeria proprio mentre finivo di decorare l'ultimo cliente come un albero di natale, e si appoggiò con tutti i suoi centotrenta chili alla sbarra tubolare della ringhiera che subito emise gemiti di protesta. Jay Score si affrettò a tirarsi su. Il suo viso forte era come sempre impassibile e nei suoi occhi brillava una luce d'altri mondi.
Mentre davo uno scrollone alla ringhiera per accertarmi che fosse ancora intatta, gli dissi: «Il guaio è che tu non ti rendi conto della tua forza.»
«No?» chiese con tono del tutto neutro. Poi rivolse la sua attenzione agli altri. «Il comandante vuole che siate particolarmente prudenti. Non possiamo permettere che si ripeta ciò che è successo quella volta a Haines e i suoi uomini. Non volate al di sotto dei trecento metri, tenete sempre in azione le telecamere e gli occhi ben aperti e tornate qui di corsa se trovate qualcosa che valga la pena di segnalare.»
«Certo, Jay.» Molders si buttò su un braccio un paio di nastri di proiettili. «Saremo prudenti.»
Se ne uscirono uno dietro l'altro e poco dopo la scialuppa si staccò con uno stridulo grido che sembrava una parodia del rombo sonoro e profondo del Marathon; virò ad angolo acuto nel cielo color verde e si innalzò al di sopra degli immensi alberi della foresta, allontanandosi fino a ridursi a un puntino. Brennand tornò indietro, si avvicinò al portello e seguì con l'occhio la lancia che spariva.
«McNulty è pauroso come una vecchia zitella che abita vicino a un penitenziario.»
«Ne ha tutte le ragioni,» spiegai. «Al ritorno è lui che dovrà rendere delle spiegazioni.»
Sulla faccia color bile di Brennand comparve una smorfia e l'uomo continuò: «Sono andato in sala motori e ho scoperto che un paio dei macchinisti di poppa ci hanno preceduti tutti quanti. Adesso sono là fuori che giocano a tirare sassi.»
«Giocano a cosa?» mugolai.
«A tirare sassi,» ripeté con l'aria di chi se la godeva.
Corsi a poppa con Brennand alle calcagna che se la spassava un mondo. Era proprio così, due di quei sudici meccanici che lustrano le macchine di poppa ce l'avevano fatta, in barba a tutti gli ordini. Dovevano essere strisciati fuori dall'ugello principale che non si era ancora raffreddato e adesso due di loro erano là in mezzo alle sterpaglie che gli arrivavano alle caviglie e tiravano sassi contro un pezzo di roccia appoggiato su un masso. Sembrava proprio di essere all'asilo infantile.
«Il comandante lo sa?»
«Puoi scommetterci di no! Pensi che avrebbe proprio scelto quei due pezzenti per il primo sbarco?»
Uno dei due si voltò e ci vide che li osservavamo dal portello. Allora ci sorrise mettendo in mostra tutti i denti e gridò qualcosa che non riuscimmo a sentire, poi fece un salto di tre metri nell'aria e si batté il petto con una mano sudicia. Da questo ne dedussi che la gravità era bassa, l'ossigeno a forte concentrazione e che quel bastardo si sentiva in gran forma. Il viso di Brennand rivelava chiaramente che anche lui moriva dalla voglia di strisciare fuori dall'ugello e unirsi alla baldoria.
«McNulty gli strapperà la pelle a quei balordi,» dissi.
«Non si può fargliene una colpa. La gravità artificiale è ancora inserita, l'astronave è piena di vapori e abbiamo fatto un sacco di strada. Deve essere meraviglioso uscire là fuori. Anch'io mi metterei volentieri a costruire castelli di sabbia.»
«Qui non c'è sabbia.»
I due là fuori si stancarono alla fine di tirare a quel bersaglio, fecero scorta di sassi, prendendoli tra le sterpaglie, poi avanzarono verso un grosso cespuglio a cinquanta metri circa dalla poppa del Marathon. Più si allontanavano, più era probabile che venissero scoperti dal comandante che stava in plancia, ma evidentemente non gliene fregava niente. Tanto sapeva che al massimo McNulty gli avrebbe strappato la pelle solo verbalmente.
Questo cespuglio aveva un'altezza tra i tre metri e i tre metri e mezzo e una folta massa di fogliame color verde brillante in cima a un tronco sottile e cedevole come un giunco. Uno dei due inservienti sopravanzò l'altro di un paio di passi, lanciò un sasso contro il cespuglio e lo centrò proprio in mezzo al fogliame. Ciò che ne seguì, avvenne così rapidamente che ci fu quasi impossibile seguirlo.
Quando il sasso centrò il fogliame, l'intero cespuglio scattò come se il tronco fosse una molla d'acciaio e tre minuscoli esserini caddero dalle foglie, sparendo alla vista in mezzo alle erbacce del suolo. Poi il cespuglio tornò nella posizione primitiva e l'unico accenno a quanto era successo era un leggero tremito dei suoi rami superiori. Ma il ragazzo che aveva lanciato il sasso adesso giaceva a terra col viso rivolto in basso. Il suo compagno si era fermato e lo fissava a bocca spalancata come se fosse rimasto pietrificato da quanto era successo.
«Ehi,» gracchiò Brennand, «cosa diavolo è successo?»
Là fuori, intanto, quello che era caduto, si riscosse, rotolò su se stesso, si mise a sedere e prese come a spulciarsi. L'altro lo raggiunse e lo aiutò. Nell'astronave non giungeva alcun suono, così non riuscivamo a sentire cosa dicessero né le imprecazioni che certo stavano usando. Alla fine, terminata la spulciatura, quello che era caduto si rialzò in piedi. Il suo equilibrio però era precario e il compagno lo sorresse mentre tornavano verso l'astronave. Dietro di loro, il cespuglio appariva assolutamente tranquillo, come sempre, e perfino i suoi vaghi tremolii erano cessati.
Quando ormai era giunto a metà strada dal Marathon, il ragazzo che aveva lanciato il sasso barcollò e si sbiancò in viso. Poi si passò la lingua sulle labbra e crollò a terra. L'altro gettò un'occhiata ansiosa in direzione del cespuglio, quasi temesse di vederselo piombare addosso a passo di carica, quindi si piegò, raccolse il corpo in spalla come fanno i pompieri e si avviò con passo incerto verso la camera stagna centrale. Jay Score lo raggiunse prima che avesse trasportato il suo fardello di dieci passi. Il passo di Jay era presente e sicuro sul tappeto verde della radura e quando Jay prese il fardello dalle braccia dell'altro, lo trasportò come se fosse una piuma. Io e Brennand corremmo loro incontro per scoprire cos'era successo.
Jay ci passò accanto e trasportò il ragazzo nell'infermeria, dove Wally Simcox, l'aiutante di Sam, si diede da fare col paziente. Il suo compagno era rimasto fuori dalla porta e aveva l'aria distrutta. Il suo aspetto peggiorò notevolmente quando lo raggiunse poi il capitano McNulty che lo perforò con uno sguardo d'acciaio prima di entrare nell'infermeria.
Dopo mezzo minuto il comandante ricomparve col viso rosso e irato e strepitò: «Va a dire a Steve di ordinare alla scialuppa di rientrare immediatamente. Deve avvertire Sam che c'è urgente bisogno di lui.»
Mi precipitai in sala radio e comunicai il messaggio a Steve. Questi apparve sorpreso, ma azionò subito l'interruttore e regolò il microfono sul petto. Dopo aver trasmesso l'ordine del capitano, ascoltò la risposta.
«Hanno risposto che tornano immediatamente.»
Quando tornai in infermeria chiesi al campione di tiro a segno: «Allora cos'è successo, stupido?»
Il ragazzotto parve afflosciarsi. «Quel cespuglio l'ha preso a bersaglio e gli ha scagliato contro un'infinità di dardi. Dardi lunghi e sottili simili a spine. Glieli ha piantati dappertutto, in faccia, nel collo, attraverso i vestiti. Uno gli ha forato perfino l'orecchio, ma fortunatamente non l'ha colpito agli occhi.»
«Diavolo!» sbottò Brennand.
«Un gruppo di dardi mi ha sfiorato sulla sinistra e sono ricaduti una decina di metri più dietro. Li ho sentiti ronzare come api.» Il ragazzo deglutì a fatica e stropicciò i piedi per terra. «Deve averne lanciati una cinquantina e forse più. Fortunatamente non mi hanno colpito.»
In quel momento uscì dall'infermeria McNulty. Aveva un'aria feroce e se lo scampato pensava di essere stato fortunato, cambiò rapidamente parere. Con voce lenta, ma carica di minaccia il. comandante gli disse: «Con te farò i conti dopo!» L'occhiata che ci scoccò avrebbe incenerito perfino un poliziotto spaziale. Noi lo osservammo in silenzio mentre percorreva il corridoio con la sua mole imponente.
La vittima ammutolì per il rabbuffo e corse al suo posto a poppa. Un minuto dopo, arrivò la scialuppa che compì un cerchio completo al di sopra di noi e discese con una leggera picchiata che terminò con un sibilo. L'equipaggio sbarcò sul Marathon mentre gli arcani sollevavano con gran stridere le dodici tonnellate della scialuppa per riportarla dentro l'astronave madre.
Sam rimase in infermeria per un'ora e quando ne uscì scosse la testa. «È andato. Non abbiamo potuto fare nulla per lui.»
«Vuoi dire che è... morto?»
«Sì. Quei dardi contenevano una specie di veleno vegetale assai virulento e contro cui non avevamo antitodi. Sembra che generi dei grumi nel sangue provocando una specie di trombosi.» Si passò stancamente una mano sui capelli ricciuti e crespi e aggiunse: «Non so come andarlo a riferire al comandante.»
Lo seguimmo verso prua. Mentre passavo davanti alla camera stagna di tribordo, misi l'occhio allo spioncino e guardai cosa stavano facendo i marziani. Kli Dreen e Kli Morg stavano giocando a scacchi sotto lo sguardo attento di tre altri. Come al solito Sug Farn dormiva in un angolo. Bisogna proprio essere marziani per annoiarsi dell'avventura e eccitarsi invece tanto per un gioco lento come gli scacchi. Ma si sa, quelli hanno un senso dei valori che è tutto a rovescio.
Kli Dreen tenne uno dei suoi occhioni fisso sulla scacchiera mentre con l'altro guardava la mia faccia inquadrata nello spioncino. Quel suo modo di poter guardare contemporaneamente in due direzioni diverse mi dava ai brividi, però. Avevo sentito dire che anche i camaleonti possono spostare gli occhi in direzioni l'una indipendente dall'altra, ma nessun camaleonte lo fa a una tale velocità da farti accavallare i nervi ottici. Brennard e Sam avevano proseguito e li raggiunsi di corsa. C'era un forte odore di guai nella direzione in cui stavano andando.
II
Il comandante per poco non esplose quando udì il rapporto di Sam. La sua voce risuonò forte e furiosa attraverso la porta semiaperta.
«Siamo appena atterrati e già devo registrare una perdita sul libro di bordo... si può essere più sconsiderati... ma è qualcosa di più di una marachella... questo significa fregarsene degli ordini... è vera e propria insubordinazione.» Fece una pausa mentre riprendeva fiato. «La responsabilità è mia. Jay, raduna l'equipaggio.»
Quando Jay Score premette il pulsante, in tutta l'astronave risuonò il segnale di adunata generale. I marziani furono gli ultimi ad arrivare. McNulty si mise a camminare impettito avanti e indietro, scrutandoci con occhio malevole, e ci diede una ramanzina coi fiocchi. Noi eravamo stati scelti a far parte dell'equipaggio del Marathon perché eravamo considerati degli individui freddi, raziocinanti, e ben disciplinati, che ormai dovevano essere diventati adulti e aver dimenticato da tempo le lusinghe di giochi infantili come quello di lanciare dei sassi al bersaglio.
«Per non parlare poi degli scacchi,» aggiunse.
Kli Dreen sobbalzò e si guardò attorno attonito per vedere se qualcun altro aveva raccolto quell'incredibile bestemmia. Ma nessuno si azzardò a contraddire il comandante.
«Badate bene,» continuò McNuIty, come ripensandoci. «Io non sono uno a cui piaccia rompere le uova nel paniere alla gente, ma è necessario mettere bene in chiaro che c'è un luogo e un momento per ogni cosa.» I marziani si strinsero l'un l'altro. «E così,» continuò McNulty, «voglio che voi...»
Il telefono di bordo squillò in quel momento e gli tagliò le parole in bocca. Il comandante aveva.ben tre telefoni sulla scrivania e li fissò a bocca spalancata come se non credesse alle proprie orecchie. Anche i membri dell'equipaggio si guardarono l'un l'altro per controllare chi mancava. Infatti avrebbero dovuto essere tutti lì.
Improvvisamente McNulty decise che rispondere al telefono sarebbe stato ancora il modo più semplice per risolvere quel mistero. Afferrò l'apparecchio e gridò: «Sì?» Uno degli altri telefoni squillò di nuovo, dimostrando che McNulty aveva scelto quello sbagliato. Così il comandante sbatté giù quello che aveva in mano e prese l'altro e ripeté: «Sì?»
Il telefono emise degli strani suoni contro il suo orecchio, mentre i suoi floridi lineamenti assumevano le espressioni più stravaganti. «Chi? Cosa?» chiese incredulo. «Cos'è che ti ha svegliato?» Strabuzzò gli occhi. «Qualcuno ha bussato alla porta?» Mise giù la cornetta del telefono come un sonnambulo che si muove in sogno, poi parlò in tono abbacchiato a Jay Score. «Era Sug Farn. Si lamenta che qualcuno l'ha disturbato dalla siesta picchiando sul volantino della camera stagna.» Infine, trovata una sedia, vi si sprofondò, respirando a fatica. I suoi occhi, che ancora non avevano assunto una posizione normale, individuarono Steve Gregory e scattò: «Per le stelle, amico controlla quegli accidenti di palpebre che hai!»
Steve ne rialzò una, riabbassò l'altra, apri la bocca e cercò di assumere un'espressione contrita. Il risultato fu invece un'espressione da perfetto imbecille. Jay Score si chinò sopra il comandante e gli parlò sottovoce, con gentilezza. McNulty annuì con aria stanca, Jay si raddrizzò e si rivolse a noi.
«Va bene, gente, tornate ai vostri posti. I marziani faranno meglio a tenersi i caschi. Piazzeremo una mitragliera davanti a quella camera stagna e attorno ci disporremo l'equipaggio armato della scialuppa. Poi apriremo la porta.»
Questa era una mossa logica. Se qualcuno si avvicinava all'astronave alla luce del giorno era possibile vederlo bene, ma una volta che fosse stato troppo a ridosso dello scafo sarebbe stato impossibile vederlo. I proiettili laterali infatti non consentivano una visione sotto un'angolatura molto ristretta e chiunque si fosse piazzato sotto il portello della camera stagna sarebbe stato nascosto dallo scafo stesso. Nessuno lo disse, ma il comandante aveva fatto un errore a indire quella riunione senza collocare delle sentinelle. E a meno che quelli che picchiavano non si spostassero più in là, sarebbe stata impossibile riuscire a dargli un'occhiata senza aprire il portellone. Ma non avevamo certo l'intenzione di metterci a tavola e andare poi a nanna senza prima vedere cosa c'era là fuori. Anche perché ci bruciava ancora quella recente esperienza su Mechanistria dove delle macchine intelligenti avevano cercato di smembrarci tutta l'astronave.
Così il sonnolento Sug Farn fu spinto fuori dalla sua cuccia e andò a prendersi la boccia per pesci rossi da sistemarsi sulla capoccia. Piazzammo la mitragliera, con l'ottava canna puntata esattamente contro il centro della porta chiusa e mentre finivamo sentimmo una mezza dozzina di forti tonfi metallici contro la porta. A me sembrò un lancio di sassi.
Lentamente la porta girò attorno ai cardini e si aprì e entrò un luminoso fascio di luce verde assieme a una zaffata d'aria che mi fece sentire come un ippopotamo in piena salute. Nello stesso tempo, l'ingegnere capo Douglas interruppe la gravità artificiale e il peso di tutti noi calò ai due terzi del normale.
Osservammo l'apertura illuminata di luce verde con tanta intensità e ansia che non ci fu difficile immaginare di vedere una bara di metallo animata che saliva improvvisamente dal portello con le lenti frontali che ci fissavano fredde. Ma non ci fu nessun ronzio di macchinari nascosti, né minacciosi sferragliamenti di braccia e gambe metalliche, niente altro all'infuori del mormorio di un piacevole venticello che soffiava tra gli alberi lontani, il fruscio delle erbe e una strana pulsazione lontana che non mi fu possibile identificare.
Tutti rimasero così in silenzio che perfino il respiro regolare di Jepson accanto a me fu evidentissimo. Il mitragliere, si acquattò dietro la sua arma, con gli occhi fissi nel mirino e il dito pronto sul grilletto, mentre i serventi di destra e sinistra stavano pronti a fargli scorrere i nastri dei proiettili di riserva. Nel frattempo tutti e tre masticavano gomma. Poi sentii un soffocato scalpiccio sull'erba al di sotto della camera stagna.
Sapevamo tutti che McNulty avrebbe dato fuori da matto se qualcuno di noi si fosse azzardato a uscire dal gruppo. Aveva ancora ben presente il ricordo doloroso dell'ultima volta in cui qualcuno si era azzardato a farlo ed era stato rapito. Perciò ce ne rimanemmo lì impalati come tante mummie e aspettammo. Che cosa non so. Subito dopo si udì un chiacchiericcio querulo sotto l'apertura e un sasso liscio, grosso quanto un melone, s'infilò nell'apertura, mancando Jepson di pochi centimetri, per schiantarsi contro la parete dietro a lui.
A quel punto, comandante o non comandante, mi stufai, impugnai il disintegratore nella destra e, piegato in due, percorsi cautamente il passaggio che attraversava la camera stagna, quindi, raggiunta l'apertura esterna, che si trovava a circa tre metri d'altezza dal suolo, sporsi la faccia per guardare. Molders mi incalzava da dietro. Adesso la lontana pulsazione era più forte che mai, ma continuava ad essere altrettanto elusiva.
Sotto di me c'era un gruppo di sei esseri che in generale avevano un aspetto straordinariamente umano. Avevano la stessa sagoma fisica, gli stessi arti, gli stessi lineamenti. Più che altro si differenziavano da noi per la pelle, che era ruvida e riccia, di un colore verde opaco, quasi privo di vita, e soprattutto per un organo del tutto particolare, simile alla testa di un crisantemo verde e carnoso, che gli cresceva proprio sul petto. I loro occhi erano acutissimi e di colore nero intenso e li facevano roteare inquieti come fanno le scimmie.
Nonostante queste differenze, la somiglianza con noi era talmente sorprendente che li fissai come un allocco mentre loro osservavano me allo stesso modo. Poi qualcuno di loro gridò qualcosa con la cadenza cantilenante di un cinese agitato e fece roteare il braccio cercando di fracassarmi quella che io mi ostino a considerare la mia testa. Mi scansai e sentii un oggetto sibilarmi appena al di sopra del cuoio capelluto. Lo stesso fece anche Molders che però senza volere mi diede uno spintone. L'oggetto scagliato finì dentro la camera stagna e urtò qualcosa... o meglio qualcuno perché sentii una bestemmia coi fiocchi mentre incespicavo e cadevo fuori dell'astronave.
Sempre con la pistola stretta convulsamente in pugno, caddi dolcemente sul verde di quel suolo soffice, rotolai come un matto e rimbalzai in piedi. Mi aspettavo di venire lapidato da un istante all'altro da una pioggia di meteore, ma i sei indigeni non erano più lì. Adeso si trovavano a cinquanta metri e correvano come lepri cercando di raggiungere la foresta con lunghi salti agili che avrebbero fatto sfigurare perfino un canguro affamato. Sarebbe stato facile abbatterne due o tre, ma poi McNuIty mi avrebbe messo in croce per quello. Le leggi della Terra erano piuttosto severe per quanto concerneva il modo di comportarsi con gli aborigeni di altri mondi.
Molders saltò giù accanto a me, seguito da Jepson, Wilson e Kli Yang. Wilson aveva con sé la sua macchina fotografica a occhio di civetta con un filtro colore sopra la lente. Era tutto eccitato e lo dava a vedere.
«Li ho ripresi dal quarto portello, mentre fuggivano. Per due volte.»
«Humph!» Molders si guardò attorno attentamente. Era un omaccione flemmatico, ma sembrava più un birraio scandinavo che un lupo dello spazio. «Inseguiamoli fino al bordo della foresta.»
«Sì,» convenne Jepson, entusiasta. Ma non lo sarebbe stato poi tanto se avesse saputo cosa gli riserbava il destino. Mentre calpestava quell'erba verdeggiante, respirò a fondo una bella boccata di aria satura di ossigeno. «Ecco l'occasione buona per fare una bella passeggiata autorizzata.»
Ci mettemmo in cammino senza indugio, ben sapendo che non sarebbe passato molto che il comandante avrebbe cominciato ad abbaiarci di tornare indietro. Nessuno era più difficile da convincere di lui che bisogna pure correre dei rischi ogni tanto e che morti e feriti sono il prezzo da pagare per la gloria del sapere, né c'era nessuno così deciso quanto lui a fare così poco.
Una volta raggiunto il limitare della foresta, i sei verdoni si fermarono e ci osservarono mentre avanzavamo. Se erano così veloci a squagliarsela quando venivano sorpresi all'aperto, non lo erano più altrettanto quando si trovavano all'ombra degli alberi che, per chissà quale ragione, sembravano ispirare loro tanta fiducia. Uno di loro ci volse le spalle, si piegò in due e ci osservò con la testa tra le gambe. Sembrava proprio una cosa illogica.
«E quella roba che significa?» mugolò Jepson.
Wilson ridacchiò sconciamente e disse: «È un gesto di spregio. Deve avere un significato cosmico.»
«Se fossi stato più svelto gli avrei potuto bruciare il sedere,» brontolò Jepson, dispiaciuto. Poi mise il piede in una buca e cadde sul naso.
I verdoni lanciarono un ululato di gioia, cui seguì una bordata di sassi che però caddero troppo lontani da noi. E noi cominciammo a correre procedendo con grandi balzi. Il vantaggio della bassa gravità non era rovinato dalla densità dell'atmosfera che, naturalmente, premeva in modo uguale, su tutti i lati. Il nostro peso così era inferiore al normale e procedevamo a velocità tale da battere anche i campioni olimpionici. Cinque dei verdoni scomparvero di botto nella foresta; il sesto sfrecciò con l'agilità di uno scoiattolo su per il tronco dell'albero più vicino. Il loro atteggiamento stava a indicare che dovevano avere delle buone ragioni per considerare gli alberi un rifugio sicuro da tutti gli assalti.
Noi ci fermammo a circa ottanta metri da quell'albero, che, per quanto ne sapevamo, avrebbe potuto anche essere pronto a scagliarci contro una mostruosa bordata di dardi. Ricordavamo fin troppo bene cosa aveva potuto fare un solo cespuglio. Poi, disposti su una fila sottile, ognuno di noi pronto a buttarsi a terra, al primo accenno di movimento strano, avanzammo cautamente verso l'albero. Non accadde niente. Ci avvicinammo ancora di più. E continuò a non accadere niente. A questo modo finimmo per trovarci sotto i rami dell'albero e assai vicini al tronco. C'era nell'aria una strana fragranza simile a un miscuglio di profumo di ananasso e cinnamomo. E la misteriosa pulsazione era più forte che mai.
L'albero era enorme, imponente. Il suo tronco fibroso, verde scuro, dal diametro di due metri, svettava verso l'alto fino a otto metri prima di dividersi in lunghi e possenti rami ciascuno dei quali terminava con una enorme foglia a spatola. A vedere quel tronco era difficile dire come aveva fatto la nostra preda ad arrampicarvisi sopra.
Adesso però non riuscivamo più a vederlo. Facemmo con grande prudenza il giro dell'albero, sollevando lo sguardo tra i grandi rami attraverso cui filtrava la luce verde con effetti di mosaico. Dell'indigeno non c'era traccia. Non c'era dubbio che fosse lassù, ma non riuscivamo semplicemente a individuarlo. E non poteva in nessun modo essere passato da quest'albero all'albero più vicino, come non poteva neanche essere disceso. Considerata la luce che c'era, vedevamo abbastanza bene attraverso i rami di quell'albero, ma più aguzzavamo gli occhi, più l'indigeno rimaneva invisibile.
«Questo è un vero enigma!» Jepson si allontanò di qualche passo per cercare un'angolatura migliore da cui guardare.
Con un formidabile fruscio un ramo sopra la sua testa si abbassò di colpo e la sua foglia spatolata lo colpì in piena schiena mentre nell'aria si diffondeva un profumo di ananasso e cinnamomo. Poi con altrettanta rapidità il ramo tornò a risollevarsi in aria, trasportando con sé Jepson. Questi, imprecando come un manovale, si dibatté furiosamente mentre noi ci raccoglievamo sotto di lui. Vedemmo che più si contorceva veniva a poco a poco ricoperto di un denso liquido vischioso giallo verdino e rimaneva appiccicato alla parte inferiore della grande foglia. Quel liquido doveva essere cinquanta volte più appiccicoso del vischio.
Tutti insieme gli gridammo di rimanere immobile prima che quella roba mortale gli finisse anche sulla faccia. I suoi abiti ne erano già zuppi e aveva il braccio sinistro bloccato. Aveva un aspetto spaventoso. Era evidente che una volta che quel liquido gli fosse finito sulla bocca e sulle narici, non ci sarebbe stato più niente da fare e sarebbe morto soffocato.
Molders tentò di arrampicarsi su per il tronco, ma scoprì che era impossibile. Poi si allontanò un poco dal tronco per cercare di vedere meglio verso l'alto, ma si riaccostò quando notò che c'era un'altra foglia in posizione strategica. Il posto più sicuro era proprio sotto lo sfortunato Jepson. A circa sei metri d'altezza, il liquido stava lentamente diffondendosi sopra tutta la sua vittima e calcolai che nel giro di mezz'ora Jepson ne sarebbe stato totalmente coperto... e forse anche in meno se continuava ad agitarsi così. Per tutto questo tempo la sorda pulsazione continuò come se volesse scandire gli ultimi momenti di vita del condannato. Mi dava l'impressione di un coro di tamburi che suonavano nella giungla, come si sente attraverso delle solide pareti.
Indicando con un gesto la sagoma cilindrica e dorata del Marathon a cinquecento metri da noi, nella radura, Wilson disse: «Torniamo indietro di corsa e procuriamoci delle corde e dei ramponi. Non ci metteremo tanto a tirarlo giù.»
«No,» risposi io. «Lo tireremo giù molto più in fretta, invece.» E detto questo puntai la mia pistola a raggi nel punto in cui la foglia di Jepson si univa al ramo. Il raggio scoccò alla massima intensità.
La foglia si staccò e l'albero parve impazzire. Jepson cadde sul morbido sottobosco, con la foglia sempre saldamente appiccicata alla schiena, emettendo un urlo e quindi una serie di imprecazioni. Poi, mentre noi ci acquattavamo, cercando disperatamente di stare il più possibile appiattiti contro terra, l'albero flagellò l'aria coi suoi rami dalle foglie viscose in cerca di vendetta.
C'era un ramo che continuava a frustare l'aria a meno di un metro dalla mia testa, mentre io cercavo di ficcare detta appendice fin sotto terra, nauseato da quell'odore di ananasso e cinnamomo che permeava l'aria. E sudavo freddo pensando alla tortura che avrebbero subito i miei polmoni e a come gli occhi mi sarebbero schizzati fuori dalle orbite e a come mi sarebbe scoppiato il cuore, se quella roba mi fosse arrivata in faccia. Avrei preferito che mi uccidessero in modo pulito con una pistola a raggi.
Alla fine l'albero smise di flagellare l'aria e tornò immobile come un gigante addormentato pronto a scatenarsi di nuovo da un momento all'altro. A carponi raggiungemmo Jepson e lo trascinammo fuori dal raggio d'azione dell'albero. L'amico non poteva camminare, scarponcini e gambe dei pantaloni erano come saldati insieme. Anche il suo braccio sinistro era saldamente incollato sul fianco. Adesso stava dando fuori da matto e continuava a imprecare senza fermarsi neanche per un momento per pensare o respirare. Non avremmo mai sospettato che fosse dotato di una tale loquela. Ma lo trascinammo al sicuro nella radura e fu solo là che anche a me vennero in mente alcune parole che aveva tralasciato.
III
Molders non disse nulla e si accontentò di ascoltare Jepson e me, senza batter ciglio. Molders mi aveva aiutato a trascinare il nostro collega e adesso nessuno di noi due riusciva a mollarlo. Eravamo legati a Jepson come fratelli siamesi, ma non parlavamo come tali. E non c'era altro da fare che continuare a trasportare fisicamente Jepson con le nostre mani posate sulle parti più sconvenienti della sua anatomia. Jepson doveva procedere in posizione orizzontale e a faccia in giù, come un ubriaco che torna in caserma a quattro zampe. Era ancora ornato dalla foglia. E continuava a salmodiare.
Il nostro compito non fu certo alleviato da quel giovane idiota di Wilson che trovava sempre divertente le disgrazie altrui. Nel nostro caso continuò a seguirci, scattando una foto dietro l'altra con la sua maledetta macchina che gli avrei ficcato nel gargarozzo con massimo piacere se solo mi fosse stato possibile. Wilson era felicissimo di non essersi imbrattato di vischio.
Jay Score, Brennand, Armstrong, Petersen e Drake ci vennero incontro mentre attraversavamo con passo goffo e pesante il tratto erboso. Guardarono Jepson con curiosità e lo ascoltarono con molto rispetto. Noi li avvertimmo di non toccarlo. Quando finalmente arrivammo al Marathon, né io né Molders eravamo più in gran forma. D'accordo che il peso di Jepson era solo due terzi del normale, ma dopo cinquecento metri sembrava pesare come un mammuth.
Lo scaricammo sull'erba appena al di sotto dell'entrata della camera stagna e fummo costretti a sederci anche noi con lui. Intanto dalla foresta continuava a provenire quel debole rumore pulsante. Jay entrò nell'astronave e portò fuori Sam e Wally per vedere cosa si poteva fare con quel maledetto superadesivo, che ormai si stava asciugando e induriva sempre più. Sulle mani e sui guanti mi sembrava di avere un rivestimento di glassite.
Sam e Wally provarono con l'acqua fredda, con quella tiepida e infine con quella bollente, ma senza ottenere il minimo risultato. L'ingegnere capo Douglas ci omaggiò anche di una bottiglia di combustibile per razzi, ma neanche quello sortì effetto. Provarono anche con una benzina speciale che Steve Gregory conservava per rifornire gli accendini dell'equipaggio. Tempo sprecato. Quella benzina era capace di liquefare la gomma, ma con questa roba... niente da fare.
«Attenzione a non perdervi, ragazzi!» ridacchiò Wilson ad alta voce e Jepson, di rimando, fece delle osservazioni corrosive sui genitori di quell'idiota. Io allargai la prospettiva tirando in ballo anche i nonni. Jepson passò all'argomento della sua inesistente progenia e Molders continuò a guardarci tutti quanti con aria stolida, senza dire nulla. «Siete decisamente in un bell'impiccio,» continuò Wilson. «Ci siete come incollati!»
Poi Sam tirò fuori anche la tintura di iodio. Neanche quella funzionò, ma in compenso diffuse un puzzo terribile. Molders si permise di assumere un'espressione di leggera sofferenza. L'acido nitrico provocò delle bolle sulla superficie semindurita del collante, ma niente più. E poi era pericoloso usare quella roba. Con la fronte sempre più aggrottata, Sam tornò indietro per andare a cercare qualcos'altro e passò davanti a Jay Score che usciva per vedere come stavamo andando. Mentre si avvicinava a noi, Jay incespicò, una cosa ben insolita in lui, considerato il suo senso superumano dell'equilibrio. I suoi massicci centotrenta chili centrarono il giovane Wilson tra le scapole e quello scimmione sogghignante cadde tra le gambe di Jepson. Subito Wilson cambiò tono e prese a dibattersi come un dannato, ma non ci fu niente da fare e rimase anche lui incollato. Allora Jepson cominciò a prenderlo a sua volta per i fondelli, ma l'altro non gradì per niente la faccenda.
Jay raccolse da terra la macchina fotografica e la fece dondolare avanti e indietro, mentre con tono contrito diceva: «Non mi è mai capitato di inciampare. È stata una vera disgrazia!»
«Una disgrazia fetente!» strepitò Wilson.
In quel momento Sam uscì dall'astronave con una grossa caraffa di vetro e ne versò il contenuto sulle mie mani incollate. Subito quell'orribile vischio verde si liquefece in poltiglia e le mani mi si liberarono.
«Ammoniaca,» osservò Sam. L'osservazione era del tutto superflua perché si sentiva bene il suo odore pungente. L'ammoniaca era un ottimo solvente e in breve ci potemmo ripulire tutti per bene.
Poi diedi la caccia a Wilson. Per tre voltie gli feci fare il giro completo dell'astronave, ma era troppo veloce per me. Alla fine stavamo già per risalire a bordo per andare a fare il rapporto al capitano quando quell'albero riprese a flagellare violentemente l'aria. Si vedevano i suoi rami agitarsi come fruste e perfino a quella distanza si sentiva Io schiocco sonoro che facevano. Fermi sotto la camera stagna, osservammo perplessi quello spettacolo. Improvvisamente Jay Score parlò con voce aspra e metallica.
«Dov'è Kli Yang?»
Nessuno di noi lo sapeva. Adesso che ci ripensavo, non ricordavo che fosse con noi mentre riportavamo indietro Jepson. L'ultima volta che lo avevo visto era stato sotto l'albero, vicino a me, e ricordo che i suoi occhioni grandi quanto piattini mi avevano dato i brividi quando li avevo visti scrutare contemporaneamente i rami in due direzioni diverse. Armstrong si precipitò dentro l'astronave per uscirne un momento dopo con la notizia che dentro Kli Yang non c'era. Con gli occhi dilatati quanto quelli del marziano scomparso, Wilson disse che non ricordava di aver visto Kli Yang uscire dalla foresta, al che afferrammo tutti quanti le nostre pistole a raggi e corremmo verso quel dannato albero. Per tutto quel tempo, intanto, l'albero continuò a sferzare l'aria come un pazzo, immobilizzato però dalle proprie radici.
* * *
Raggiunto l'enorme albero, gli girammo attorno, tenendoci fuori di portata della sue micidiali foglie, per vedere cdov'era che il marziano era stato bloccato da quella dannata colla. Ma non era affatto così. Trovammo Kli Yang avvinto al tronco dell'albero a dodici metri d'altezza. Con cinque dei suoi possenti tentacoli il marziano stringeva il tronco e con gli altri cinque aveva bloccato l'indigeno a cui avevamo dato prima la caccia. Il suo prigioniero si dibatteva come un disperato, ma senza risultato, e intanto strepitava come un ossesso con voce stridula.
Kli Yang prese a scendere dal tronco con grande prudenza. A vedere come si muoveva, lo si sarebbe detto un impossibile incrocio tra un professore universitario e una piovra addomesticata. L'indigeno roteava gli occhi in preda al terrore e picchiava pugni sul casco di glassite del marziano, ma Kli si limitò semplicemente a ignorarne l'ostilità e, raggiunto il ramo che aveva fatto prigioniero Jepson, non discese oltre. Sempre tenendo stretto il verdone che strepitava indignato, prese a strisciare su quel ramo sferzante finché non ne raggiunse l'estremità priva di foglie, dove l'ondeggiamento del ramo faceva compiere a lui e all'indigeno sbalzi di otto metri.
A quel punto calcolò esattamente i tempi e quando il ramo si trovò nel suo punto più basso, l'abbandonò, per poi scappare lontano e mettersi al sicuro prima che un altro ramo bramoso della sua pellaccia lo centrasse al volo. Nella parte più vicina a noi della foresta si udi un ululato cantilenante e dall'ombra fu proiettato contro di noi una specie di noce di cocco verde azzurra che si spezzò ai piedi di Drake. L'oggetto era sottile e fragile quanto il guscio di un uovo vuoto; la sua superficie interna era bianca e non conteneva nulla. Kli Yang non badò minimamente a quegli ululati né all'oggetto lanciato e trasportò il suo recalcitrante prigioniero verso il Marathon.
Drake indugiò un momento invece, e scrutò incuriosito quella noce di cocco o qualunque cosa fosse, alla fine ne colpì i frammenti con lo stivaletto. Il risultato fu che venne centrato in pieno da qualcosa di invisibile che emanava dal guscio e lo vedemmo risucchiare in dentro le guance, roteare gli occhi e indietreggiare. Poi vomitò. I conati erano talmente violenti che mentre scappava incespicò e cadde. Per fortuna noi avemmo il buon senso di raccoglierlo e trasportarlo di corsa dietro Kli senza andare a indagare da vicino su quanto era successo. Drake continuò a vomitare per tutto il tragitto fino all'astronave e si riprese solo quando arrivammo sotto lo scafo del Marathon.
«Per lo spazio!» singhiozzò. «Che puzza! Al suo confronto una puzzola olezzerebbe di rosa nel mondo animale.» Si asciugò le labbra. «Mi si è rivoltato completamente lo stomaco.»
Quando andammo a cercare Kli, scoprimmo che il suo prigioniero era stato accompagnato in cucina per offrirgli un pranzo della pace. Kli si tolse il casco e disse: «Non mi è stato difficile scalare quell'albero. Mentre salivo continuava a sferzare l'aria, ma non poteva arrivare a colpire chi stava sul suo tronco.» Poi starnutì, strofinandosi il viso piatto da abitante da Pianeta Rosso con la punta flessibile di un grande tentacolo. «Non capisco proprio come facciate voi bipedi a trangugiare questa zuppa che vi ostinate a chiamare aria.»
«Dove hai trovato il verdone, Kli?» chiese Brennand.
«Si era nascosto sul tronco a più di dodici metri d'altezza e con la parte anteriore si era incuneato in un incavo che aveva esattamente la sua forma, mentre la sua schiena assomigliava così perfettamente alla superficie del tronco che sono riuscito a scorgerlo solo quando si è mosso impaurito perché gli ero andato troppo vicino.» Kli raccolse il casco. «È stato davvero un ottimo esempio di mimetizzazione.» Con un occhio guardò il casco, con l'altro fissò Brennand che appariva interessato, e fece un gesto di disgusto. «Cosa ne direste di abbassare un po' la pressione in qualche posto dove le forme di vita superiore possano vivere in santa pace?»
«Elimineremo un po' d'aria dalla camera stagna di babordo,» promise Brennand. «E non darti tante arie, brutta caricatura di un ragno di gomma.»
«Bah!» osservò Kli con grande dignità. «Chi ha inventato gli scacchi? E chi non sa neanche giocare a tirare i sassi senza finir male?» E con quell'insultante osservazione contro l'inesperienza scacchistica dei terrestri, si infilò il casco di glassite. Io gli diminuii un po' la pressione interna. «Grazie,» mi disse attraverso il diaframma.
E adesso era ora di andare a studiare il verdone.
Fu il capitano McNulty in persona a interrogare l'indigeno. Il comandante sedeva maestosamente dietro la sua scrivania di metallo e osservava il prigioniero nervoso con un misto di pomposità e gentilezza. Il nativo era in piedi davanti a lui e roteava terrorizzato gli occhioni neri. Adesso, a distanza avvicinata si vedeva che portava un lembo di stoffa attorno ai fianchi dello stesso colore della sua pelle. La sua schiena era di diverse tonalità più scura della parte frontale, più ruvida e fibrosa con dei nodulini qua e là che simulavano perfettamente la superficie del tronco dell'albero su cui aveva trovato rifugio. Perfino il lembo di stoffa attorno ai fianchi era più scuro dietro che davanti. I suoi piedi erano larghi e privi di calzature, con le dita a doppio snodo e lunghe quasi quanto le dita delle mani. Fatta eccezione per il lembo di stoffa, era completamente nudo e non portava armi. Ma gli occhi di tutti furono attirati dallo strano crisantemo che gli spuntava dal petto.
«Gli è stato dato da mangiare?» chiese il comandante, pieno di sollecitudine.
«Glielo abbiamo offerto,» gli rispose Jay, «ma ha rifiutato. Da quanto riesco a capire, vorrebbe tornarsene sul suo albero.»
«Mmmm,» grugnì McNulty. «Tutto a suo tempo, giovanotto.» Poi, assunta l'aria benevola di uno zio affettuoso disse al nativo: «Come ti chiami?»
Il verdone captò il tono interrogativo e si mise ad agitare le braccia, prorompendo in una intraducibile valanga di parole. Andò avanti per un pezzo e per aiutarsi nel discorso si mise anche a gesticolare in modo enfatico, ma assolutamente incomprensìbile. La sua lingua era ricca di forme liquide e la sua voce era cantilenante.
«Capisco,» mormorò McNulty davanti a quell'effluvio di parole. Poi, rivolto uno sguardo interrogativo a Jay Score, gli chiese: «Credi che questo tizio sia telepatico come quelle specie di aragoste dell'altra volta?»
«Ne dubito proprio. Io lo metterei piuttosto a livello di un pigmeo del Congo... forse anche più in basso. Non possiede neppure una semplice lancia, per non parlare poi di arco e frecce o cerbottane.»
«Sì, pare anche a me così.» Sempre mantenendo quella sua aria paterna, McNulty continuò: «Va bene, Jay. Non abbiamo nessuna base comune per mezzo della quale farci comprendere adesso, quindi credo che dovremo partire da zero. Scoveremo qualcuno dotato con le lingue, e gli faremo imparare i rudimenti della lingua di questo bel tomo, mentre gli insegnerà anche la nostra.»
«Io ho il vantaggio di avere una memoria meccanica... lasci provare a me,» suggerì Jay. Si avvicinò all'indigeno, muovendo con agilità il suo corpaccione ben proporzionato sui cuscinetti di gommapiuma dei piedi. Era evidente però che l'indigeno non gradiva le sue dimensioni, né il suo portamento e neppure i suoi occhi luminosi, perché indietreggiò fino a toccare la paratia con la schiena, mentre i suoi occhi saettavano da una direzione all'altra.
Jay, quando vide l'espressione terrorizzata del verdone, si fermò e si picchiò in testa una manata, che se l'avesse data alla mia me l'avrebbe staccata dal collo. E pronunciò: «Testa.» Ripeté quel gesto una dozzina di volte sempre continuando a ripetere: «Testa, testa.»
Il verdone evidentemente non era stupito perché capì al volo e con voce incerta disse: «Mah.»
Jay allora si toccò nuovamente la testa e in tono interrogativo disse: «Mah?»
«Bya!» canterellò l'altro, che ormai stava riprendendo coraggio.
«Vedete, è davvero facile,» approvò McNulty. «Mah... testa; bya... sì.»
«Non necessariamente,» lo contraddisse Jay. «Tutto dipende da come la sua mente ha tradotto il mio gesto. Mah potrebbe significare ugualmente testa, faccia, uomo, capelli, dio, mente, pensiero o alieno o indicare perfino il colore nero. Se lui ha considerato i miei capelli e i suoi, allora mah significa probabilmente nero, mentre bya non significa si, ma verde.»
«Oh, non ci avevo pensato.» Il comandante apparve abbattuto.
«Dovremo continuare con questa manfrina finché non avremo raccolto abbastanza parole da formare delle frasi sia pure zoppicanti. E allora, dal contesto, potremmo dedurre ulteriori significati. Mi dia qualche giorno.»
«Procedi pure. E fa del tuo meglio, Jay. Non possiamo aspettarci di imparare una lingua in cinque minuti. Sarebbe assurdo.»
Dopo aver accompagnato il nostro prigioniero in una cabina dove riposare, Jay andò a cercare Minshull e Petersen. Era convinto che se uno doveva imparare una lingua, tanto valeva che fossero in tre a farlo. Minshull e Petersen erano tutti e due degli assi in fatto di lingue e parlavano esperanto, ido, venusiano, basso e alto marziano. Su tutta la nostra astronave erano gli unici che potevano dare una ramanzina ai maniaci degli scacchi nella loro stessa lingua.
Trovai Sam in armeria dove era andato a riconsegnare il materiale che aveva prelevato e gli dissi: «Cos'avete visto dalla scialuppa, Sam?»
«Non molto. Non siamo rimasti fuori abbastanza. Non sono riuscito ad allontanarmi per più di duecento chilometri e non ho visto che foresta, sempre foresta con qualche radura qua e là. Un paio di radure erano ampie quanto un'intera contea. La più grande di tutte si trovava in fondo a un Iago allungato. E c'erano diversi fiumi e torrenti.»
«Qualche traccia di vita?»
«Nessuna.» Con un gesto indicò il corridoio in fondo al quale c'era la cabina in cui Jay e gli altri stavano controinterrogando l'indigeno. «Sembra che nella foresta si annidi una forma di vita superiore, ma dall'alto non se ne scorgono le tracce. Wilson adesso sta sviluppando le pellicole, ma dubito che le sue telecamere abbiano ripreso qualcosa che a noi è sfuggito.»
«Ah, bene,» dissi. «Duecento chilometri in una sola direzione non servono certo per giudicare un mondo. Non mi scoraggio facilmente, almeno da quella volta che quel venditore a domicilio mi ha sbolognato una latta di vernice striata.»
Sam fece una risatina. «Non ha funzionato?»
«L'ho data sul lato sbagliato,» gli dissi.
Fu proprio mentre ci prendevamo in giro così a vicenda che mi colpì una grandiosa idea. Lo seguii fuori dall'armeria e corsi in sala radio. Steve Gregory era seduto davanti alle sue apparecchiature e cercava di fingere di darsi da fare senza far nulla. Ma io ero ben deciso a svegliarlo col mio lampo di genio.
IV
Mentre Steve alzava uno sguardo interrogativo verso di me, gli dissi: «Ehi, che ne diresti di frugare le varie bande?»
«Uh?»
«Ricordi quegli strani sibili e rumori di cascata che avevi raccolto su Mechanistria? Be', se qui ci fosse qualcuno che emette onde radio, non potresti individuarle?»
«Certo.» Per una volta tanto riuscì a non muovere le sopracciglia cespugliose, ma rovinò l'effetto agitando le orecchie. «Sempre che ci sia qualcuno che emette onde radio.»
«Allora prova a vedere. Se non altro sapremo qualcosa di più. Che aspetti?»
«Tu hai tenuto quelle armi a raggio pulite e cariche?» mi chiese.
Lo fissai, spalancando tanto d'occhi. «Ci puoi scommettere! Quelle armi sono sempre pronte all'uso. È mio compito.»
«E questo è il mio, invece,» sbottò asciutto. Agitò di nuovo le orecchie. «Arrivi come al solito in ritardo di ore. Non appena siamo atterrati ho frugato l'etere, ma non ho raccolto altro che un leggero sibilo sui dodici virgola tre metri. Sono le scariche caratteristiche di Rigel e provenivano appunto da quella direzione. Mi avevi forse preso per quella piovra dormigliona di Sug Farn?»
«Oh, no. Chiedo scusa, Steve... solo mi era sembrata una così brillante idea.»
«Niente di male, sergente,» mi disse in tono amabile. «Ognuno fa il suo mestiere e ogni inserviente si gode la spazzatura.» A quel punto girò con fare indolente le scintillanti manopole dei selettori della sintonia fine.
L'altoparlante tossì come se si stesse schiarendo la gola poi in toni striduli trasmise: «Pip-pip-whop! Pip-pip-whop!»
Non si sarebbe davvero potuto trovare niente di meglio per turbare l'olimpica serenità delle sue sopracciglia. Sono pronto a giurare che dopo quella sorpresa, le sopracciglia di Steve gli risalirono su per il cranio, per scendergli poi sulla nuca e annidarglisi sotto il colletto della camicia.
«È in Morse,» disse in tono lamentoso, da bambino che è stato rimproverato.
«Avevo sempre pensato che il Morse fosse un codice non un sistema,» feci notare. «Comunque se si tratta di Morse, sarai capace di tradurlo.» Feci una pausa mentre l'altoparlante emetteva un fragoroso: «Pip-pipper, pee-eep-whop!» poi conclusi. «Ogni gatto ha diritto alla sua cassettina di sabbia.»
«No, non è Morse,» osservò poi Steve, in contraddizione con quanto aveva detto prima. «Ma sono segnali intermittenti.» Avrebbe probabilmente inarcato le sopracciglia a quel punto se non ci fosse voluto troppo tempo per riportarle indietro da dove erano finite. Quindi, dopo avermi scoccata una di quelle tragiche occhiate che a volte si vedono, prese un blocco di carta e cominciò a registrare gli impulsi.
Poiché avevo da fare con le tute spaziali, i caricatori delle mitragliere e altre cosette, lo lasciai e me ne tornai in armeria per rimettermi al lavoro. Steve stava ancora sgobbando quando cadde il tramonto. Anche Jay e gli altri erano impegnati, ma non per molto ancora.
Il sole affondò all'orizzonte, e le sue lunghe striature svanirono dal cielo mentre un manto vellutato pareva calare sulla foresta e la radura. Io stavo percorrendo il corridoio diretto alla cucina e mi trovavo proprio davanti alla cabina del prigioniero quando la porta si aprì di scatto e il verdone si precipitò fuori. Il suo volto era atteggiato a una smorfia di disperazione e le sue gambe andavano a tutta birra. Minshull gridò qualcosa dietro di lui proprio mentre l'indigeno mi piombava tra le braccia. Il verdone si dimenò come un'anguilla, mi morse in volto e cercò di colpirmi alle gambe con violenti calci dei suoi piedi nudi, quasi volesse staccarmele. Il suo corpo ruvido emanava un leggero odore di ananasso e cinnamomo.
Gli altri due sbucarono dalla cabina, lo afferrarono stretto e gli parlarono con frasi smozzicate finché lui non sì rilassò. I suoi occhi però erano mobilissimi e pieni d'ansia e il verdone parlò concitato con Jay Score, facendo dei gesti pieni d'urgenza e agitando le braccia legnose in una maniera che mi ricordarono i rami che flagellavano l'aria. Jay cercò di blandirlo con un discorso gentile anche se incerto. Sembrava che ormai avessero imparato tutti quanti abbastanza parole da cavarsela in qualche modo, anche se non erano sufficienti da farsi capire perfettamente. Ma procedevano bene.
Alla fine Jay disse a Petersen: «Avverti il comandante che voglio lasciare andare Kala.»
Petersen si allontanò e meno di un minuto dopo era già di ritorno. «Il comandante ha detto di fare ciò che reputi meglio.»
«Bene.» Jay accompagnò l'indigeno fino alla camera stagna di tribordo, gli parlò brevemente, e lo lasciò andare. Il verdone saltò subito giù dal portellone. Qualcuno nella foresta doveva attenderlo con impazienza perché i suoi piedi fecero un veloce scalpiccio mentre correva sull'erba. Jay lo seguiva dal portellone con gli occhi fiammeggianti che foravano l'oscurità.
«Perché l'hai lasciato andare, Jay?»
Jay si voltò verso di me e rispose: «Ho cercato di persuaderlo a tornare all'alba. Adesso può darsi che lo faccia o meno... questo è da vedersi. Non abbiamo avuto il tempo di ricavare molto da lui, ma la sua lingua è di struttura semplicissima e ne abbiamo appresa abbastanza da sapere che lui si chiama Kala e appartiene alla tribù di Ka. Tutti i membri della sua tribù si chiamano Ka-qualcosa, ad esempio Kalee, Ka'noo o Kaheer.»
«Un po' come i marziani coi loro Kli, Leid e Sug.» osservai.
«Qualcosa del genere,» convenne, incurante di ciò che avrebbero potuto pensare i marziani a sentirsi paragonare a quegli indigeni di color verde. «Kala ci ha anche detto che ogni uomo ha un suo albero e ogni insetto il suo lichene. Non ho capito bene cosa intende dire con quella frase, ma è riuscito a convincermi di una cosa: che la sua vita dipende strettamente dal fatto che lui, durante la notte, possa stare col suo albero. Questo per lui era di importanza estrema. Ho cercato di farlo rimanere ancora un po', ma ho visto che soffriva in modo evidente. Avrebbe preferito morire piuttosto di stare lontano dal suo albero.»
«A me sembra una fesseria.» Mi soffiai il naso e feci un sorrisone. «E a Jepson sembra ancora più assurdo.»
Jay fissò ancora lo sguardo nelle profonde tenebre da cui provenivano strani odori notturni e quelle pulsazioni che non cessavano mai neppure per un istante. Con voce calma, aggiunse: «Ho anche saputo che ci sono altri esseri nelle tenebre, altri esseri più potenti dei Ka. Esseri che hanno molto gamish.»
«Molto cosa?»
«Molto gamish,» ripeté Jay. «Questa è una parola che non sono proprio riuscito a capire. L'ha usata ripetutamente. Ha detto che il Marathon aveva molto gamish, che io avevo molto gamish e Kli Yang aveva moltissimo gamish. Il capitano McNulty invece, a quanto pare ne avrebbe solo un po'. I Ka non ne hanno affatto.»
«Era forse qualcosa di cui aveva paura?»
«Non esattamente. Da quanto sono riuscito a capire, qualsiasi cosa insolita o sorprendente o unica è satura di gamish. Ciò che è appena anormale, invece, ha una quantità minore di gamish. E ciò che è normale non ne ha affatto.»
«Questo,» osservai, «dimostra bene le difficoltà di comunicazione. Comunicare non è una cosa così facile come pensano quelli che se ne stanno in panciolle a casa.»
«No, infatti.» I suoi occhi lucenti si spostarono verso Armstrong che si appoggiava alla mitragliera. «Fai tu questo turno di guardia?»
«Fino a mezzanotte. Poi toccherà a Kelly.»
Scegliere Kelly per montare la guardia era un segno di pessima psicologia. Questo bell'esemplare tutto tatuato era come saldato a una chiave fissa di un metro e in qualsiasi momento, per quanto delicato, lo si poteva vedere tutto impegnato a utilizzare detto strumento in preferenza alle ultime novità come le mitragliere o le pistole a raggi. Correva anche voce che si fosse portato dietro quell'arnese il giorno del suo matrimonio e che sua moglie aveva ottenuto il divorzio perché quella dannata chiave fissa esercitava un effetto deprimente sul suo morale. La mia opinione personale era che Kelly avesse la mente di un neanderthalliano.
«La porta stagna la terremo chiusa, però,» decise Jay, «e non venitemi a rompermi le scatole con la storia dell'aria fresca.» Questo era un suo tratto caratteristico che lo rendeva sempre così umano... appunto questo suo modo di parlare dell'aria fresca come se la utilizzasse lui stesso. Il tono del tutto casuale con cui lo diceva, vi faceva dimenticare perfino che lui non aveva mai respirato una sola volta dal giorno in cui il vecchio Knud Johanssen lo aveva messo in posizione eretta. «Andiamo a inserire il chiavistello.» E voltata la schiena alla pulsazione proveniente dalle tenebre, cominciò a rientrare nella camera stagna stando bene attento a non porre i piedi sulle filettature della valvola di chiusura.
Dalle tenebre si udì una voce cantilenante che gridò: «Nou baiders!»
Jay si bloccò di colpo, con gli occhi che erano due carboni ardenti. All'esterno, proprio sotto l'apertura della camera stagna si udì uno scalpiccio di piedi, poi qualcosa di sferico e vetroso sfrecciò dentro il portellone, passò sopra la spalla sinistra di Jay e andò in frantumi sopra la culatta superiore della mitragliera, spruzzando tutt'attorno un sottile schizzo di liquido dorato che vaporizzò istantaneamente.
Jay si girò su se stesso, volgendosi verso l'apertura che dava sull'esterno, mentre Armstrong si accostava alla parete per premere col pollice il pulsante dell'allarme generale. Ma prima che potesse toccare quel pulsante, Armstrong cadde a terra, come abbattuto da una mazza invisibile. Io impugnai la pistola a raggi con la bocca rivolta verso la giungla e avanzai con cautela. Inquadrato dalla lucente filettatura della valvola di chiusura vidi la sagoma di Jay tagliarsi contro lo sfondo d'ebano. Fu un terribile errore. Avrei fatto meglio a premere quel pulsante d'allarme. Tre passi ancora e poi l'immagine di tutta quella scena si gonfiò come una bolla di sapone, il cerchio si allargò e la filettatura della valvola divenne ampia e profonda con Jay che appariva gigantesco al centro. Poi la bolla si ruppe e io caddi di schianto come era successo a Armstrong.
Non so per quanto tempo rimasi in quello stato, perché quando riaprii gli occhi, avevo la vaga impressione di aver sentito delle grida attorno al mio corpo a terra e uno scalpiccio di piedi. Mentre ero lì come un cadavere dovette succedere di tutto e quando mi ripresi mi accorsi che ero ancora sdraiato per il lungo sul soffice tappeto erboso zuppo di rugiada, come la foresta da cui continuavano a uscire quelle strane pulsazioni vicina sul mio lato sinistro e le stelle che mi occhieggiavano indifferenti dalla gran volta del cielo. Ero però legato come una mummia egiziana. Di fianco a me c'era un'altra mummia: Jepson. Oltre a Armstrong e diversi altri sul fianco opposto.
A varie centinaia di metri di distanza, i rumori frangevano ancora il silenzio della notte, un misto di imprecazioni terrestri e pigolii alieni. Il Marathon era sempre al suo posto e tutto quel che si poteva vedere in quelle tenebre generali era il fascio di luce che si proiettava fuori dal portellone aperto. Poi la luce tremò, si intensificò e sbiadì, per una o due volte sparve addirittura. In mezzo a quel fascio di luce era in atto una lotta che a volte ne cancellava la luminosità, mentre i contendenti si spostavano avanti e indietro.
Jepson russava come un porco dopo una bella sbronza da sabato sera, ma Armstrong era in pieno possesso dei suoi sensi e imprecava come un ossesso. Poi, rotolatosi sul fianco, cominciò a mordere coi denti i nodi dei legacci che tenevano avvinto Blaine, ma una forma vagamente umana uscì dall'ombra nel massimo silenzio e vibrò un colpo in basso. Armstrong si calmò di colpo.
Io strizzai gli occhi per cercare di distinguere quelle forme silenziose che stavano attorno a noi, mentre in silenzio, e senza agitarmi troppo, rivolsi qualche pensiero niente affatto complimentoso nei confronti di McNulty, del Marathon e del buon Flettner che aveva inventato quel tipo d'astronave e di tutti quei tipi così altruisti che lo avevano sostenuto moralmente e finanziariamente. Avevo sempre avuto l'impressione che presto o tardi quella gente sarebbe stata la mia morte.
Nel mio profondo, sentii anche una vocina che mi diceva: «Sergente, non ricordi quella promessa che hai fatto a tua madre di non usare un linguaggio osceno? Ricordi quando hai dato a quel pescione venusiano una scatola di latte condensato in cambio di un opale grande quasi quanto l'orologio del campanile? Pentiti, sergente, finché sei in tempo!»
I penetranti pigolii che si sentivano da lontano si intensificarono in un crescendo mentre le poche voci terrestri finivano ad una ad una col tacere. Di tanto in tanto si sentiva il fracasso di oggetti fragili e leggeri che si spezzavano. Altre sagome indistinte portarono altri corpi e li scaricarono accanto a noi, poi tornarono a sparire nelle tenebre. Avrei voluto poter contare quanti eravamo, ma il buio non me lo permise. Tutti i nuovi arrivati erano svenuti, ma ripresero rapidamente i sensi. Riuscii a distinguere la voce irosa di Brennand e il respiro asmatico del comandante. Una stella azzurra risplendette attraverso il bordo di una nube di passaggio mentre la lotta aveva fine. La pausa che seguì aveva qualcosa di spettrale; un silenzio solenne e carico di sottintesi rotto solo dallo scalpiccio di piedi sull'erba e dalla regolare pulsazione proveniente dalla foresta.
Attorno a noi si raccolse un gran numero di forme. La radura ne era piena. Delle mani mi sollevarono, mi controllarono i legacci e mi gettarono su un'amaca di vimini, poi fui sollevato ad altezza di spalla e venni trasportato. Mi sembrava proprio di essere un cinghiale abbattuto portato in trionfo da portatori indigeni dopo la cattura. Semplicemente della carne... il sottoscritto. Semplicemente un trofeo di caccia. Mi chiesi se Dio mi avrebbe messo a confronto con quel pescione.
La carovana si avviò nella foresta e la direzione di marcia era quella della mia testa. Un'altra amaca mi seguiva ai piedi e capii, più che vedere, che ne seguiva tutto un corteo. Jepson era la sardina che mi seguiva e continuava a blaterare su come era finito sempre legato fin dal primo momento che eravamo sbarcati su quel mondo di... puntini, puntini. La fila dei portatori girò con cautela attorno a un albero che si intravedeva appena, passò a vivace passo di marcia sotto un secondo e ne scansò un terzo. Come diavolo facessero i portatori a distinguere un albero dall'altro in quell'oscurità mi era assolutamente incomprensibile.
Ci eravamo appena avventurati in un'oscurità ancora più profonda quando nella radura dove eravamo prima risuonò una tremenda esplosione e una colonna di fuoco si levò fino al cielo illuminandolo a giorno. Perfino il fuoco aveva un color verdognolo su quel mondo. La fila si fermò. Due o trecento voci pigolarono querule, passandomi davanti di corsa per tornare indietro di un centinaio di metri. «Hanno fatto saltare il Marathon,» pensai. «Bah, tutte le cose a un certo punto devono aver fine, comprese le nostre più tenui speranze di tornarcene a casa.»
I pigolii furono soffocati dal rombo di quella colonna di fuoco che si era ancora intensificato. Quando i portatori ripresero il cammino, la mia amaca prese a sobbalzare. Bisogna sperimentare l'andatura che tenevano per poterci credere; per poco io non fui sbalzato fuori, scansai quest'albero, ma non quell'albero, a volte evitando degli arbusti quasi invisibili che alberi non erano. E avevo il cuore in fondo alle scarpe.
Improvvisamente il ruggito che si levava dalla radura terminò con un tonfo possente e una lancia scarlatta sfrecciò verso il cielo forando le nubi. Era uno spettacolo che avevo già visto: quello di un'astronave che si leva in volo. Era il Marathon!
Possibile che quegli esseri fossero tanto geniali da imparare sui due piedi a manovrare un'astronave totalmente sconosciuta, tanto da portarla dove volevano? Erano forse questi gli esseri superiori ai Ka che mi avevano descritto? Tutta la faccenda era assurda, degli esperti astronauti che portavano i prigionieri su amache di vimini. Inoltre, dal loro chiacchiericcio e dal passo che avevano assunto, sembrava che lo sprazzo di vita del Marathon li avesse presi alla sprovvista. Era proprio un mistero irresolvibile per me.
Mentre la fiammeggiante scia dell'astronave arcuava verso nord, il nostro gruppo aumentò ancora l'andatura. Ci fu una fermata durante la quale i nostri catturatori si consultarono, ma il fatto che continuarono a pigolare mi faceva capire che non si erano fermati per fare un pasto. Venti minuti dopo ci fu un'altra fermata e davanti a noi scoppiò un alterco. Delle guardie rimasero vicine a noi mentre a breve distanza si levava un clamore di molte voci accompagnato da rumorosi miagolii e da un flagellare di grandi rami. Io cercai di immaginarmi una tigre verde e luminosa.
Alla fine ci furono dei tonfi e il miagolio terminò in un colpo di tosse soffocato. Anche il rumore dei rami flagellanti cessò. Allora riprendemmo il cammino, compiendo un'ampia curva attorno a una sagoma mostruosa che mi sforzai invano di vedere. Se solo quel mondo avesse posseduto una luna! Ma non c'erano lune. C'erano solo le stelle e le nubi e la foresta da cui proveniva quel pulsare ininterrotto.
L'alba spuntò mentre la fila dei portatori si allontanava con cautela da un macchione di rovi dall'aria apparentemente innocente. Raggiungemmo la riva di un ampio fiume. Qui potemmo finalmente osservare le nostre guardie mentre guidavano portatori e fardelli giù per la riva. Queste erano degli esseri molto simili ai Ka, solo più alti e slanciati con grandi occhi intelligenti. Anche loro avevano lo stesso tipo di pelle fibrosa, più grigia, non così verde, e lo stesso crisantemo piantato sul petto. A differenza dei Ka, avevano i fianchi rivestiti da indumenti a pieghe, oggetti di fibre intrecciate e arnesi di legno tra cui complicate cerbottane e dei vasi rotondi con un contenitore a bulbo nella base. Alcuni portavano anche dei panieri contenenti delle piccole sfere come quella che mi aveva fatto perdere i sensi nella camera stagna.
Quando inclinai la testa per cercare di vedere meglio, riuscii solo a scorgere Jepson nell'amaca che veniva dopo la mia e Brennand in quella dietro a lui. Un istante dopo, i miei portatori scaricarono la mia amaca ai bordi dell'acqua senza fare tante cerimonie, poi quella di Jepson a fianco della mia e le altre una di seguito all'altra.
Jepson girò il collo, mi guardò e disse: «Che vermi!»
«Su, sta calmo,» gli dissi. «Se stiamo al loro gioco, forse ci daranno corda.»
«E poi,» aggiunse con cattiveria, «non mi piacciono i tizi che cercano di essere spiritosi nei momenti sbagliati.»
«Io non cercavo affatto di essere spiritoso,» scattai. «Ognuno di noi ha il diritto di tenersi le sue opinioni, no?»
«Ecco che ricominci!» Jepson si contorse nella sua amaca, cercando di forzare i legacci. «Un giorno o l'altro ti concerò io!»
Era inutile parlare con un bestione del genere, perciò non gli risposi. La luce si fece più forte e prese a splendere di un bel verde attraverso la nebbiolina verde che incombeva sul fiume, anch'esso verde. Adesso riuscivo a vedere anche Blaine e Minshull legati dietro Armstrong e la massiccia forma di McNulty dietro di loro. Eravamo ormai in viaggio da circa due ore.
Dieci dei nostri catturatori percorsero tutta la fila di amache aprendoci giacche e camicie per metterci a nudo il petto. Con sé avevano una scorta di quei vasi coi contenitori a bulbo. Due di essi mi scostarono l'uniforme dal petto e lo fissarono come Antonio doveva aver fissato Cleopatra. Ci fu qualcosa che dovette colpirli notevolmente, ma non doveva certo essere il petto villoso. Non ci voleva molto acume per capire che erano sorpresi di vedere che ero privo di crisantemo e non capivano come potessi vivere senza. Così chiamarono anche gli altri e tutta la banda si mise a discutere di quell'argomento mentre io me ne stavo lì come una vergine sacrificale. Poi decisero di occuparsi di qualcos'altro e tirarono oltre.
I due malcapitati cui toccò questa volta furono Blaine e lo stupidotto che aveva fatto il tirassegno contro la roccia, i quali vennero slegati e spogliati completamente per essere esaminati come bestiame di razza a una fiera di campagna. Uno degli alieni pungolò Blaine al plesso solare e questi gli saltò addosso con un grido attirandolo a terra. Anche l'altro nudista si gettò nella mischia. Armstrong, che non era mai stato un mingherlino tipo fantino spezzò i legacci che lo avvincevano, si rizzò in piedi col volto paonazzo per lo sforzo e si gettò anche lui nella mischia con un ruggito da leone. Sulla sua schiena poderosa dondolavano i frammenti dell'amaca spezzata.
Su tutta la fila delle amache, anche noi altri facemmo sforzi sovrumani per liberarci, ma inutilmente. Poi i verdoni accorsero sulla scena della lotta, e le sfere si frantumarono tutt'attorno ai tre terrestri che si battevano come folli. Il meccanico e Blaine caddero contemporaneamente, come drogati. Armstrong rabbrividì, barcollò, si riprese e resistette abbastanza da spedire due nativi nel fiume e colpire con forza un terzo. Ma alla fine anche lui dovette soccombere.
V
I verdoni tirarono fuori dal fiume i loro compagni, rivestirono Blaine e l'altro che erano profondamente addormentati, fecero lo stesso con Armstrong e li legarono tutti e tre saldamente. Ancora una volta si misero a discutere animatamente. Naturalmente non riuscii a comprendere un accidente di quel loro linguaggio da canarini, ma ebbi l'impressione che, secondo loro, noi fossimo dotati di una certa quantità di gamish.
I legacci cominciavano a infastidirmi. Avrei dato chissà cosa per avere la possibilità di entrare in azione e fracassare un po' di quelle testacce verdi. Contorcendomi un poco, rivolsi un occhio un po' appannato verso un piccolo cespuglio che cresceva a fianco dell'amaca. Il cespuglio faceva tremolare leggermente i minuscoli rami e emetteva un onore di caramello bruciato. Tutta la vegetazione attorno si muoveva e emetteva odori.
Improvvisamente i verdoni smisero di confabulare, e si affollarono sulla riva del fiume dove una flotta di lunghe barche, strette e affusolate, avevano appena superato un'ansa e, spumeggiando sotto i rami protesi di grandi alberi, toccarono riva. Poi ci trasferirono a bordo, cinque per barca, e una volta caricatici, il nostro equipaggio si staccò da terra con vigorosi impulsi, facendo forza ritmicamente su una fila di dieci leve di legno su ogni fianco della barca per risalire il corso del fiume. Procedemmo a una discreta andatura.
«Io avevo un nonno che era missionario,» dissi a un tratto a Jepson. «E si era cacciato anche lui in una situazione simile.»
«E allora?»
«È finito nel pentolone,» aggiunsi.
«E ci finirai anche tu forse,» scattò Jepson, tentando ancora una volta di spezzare i legacci.
Poiché non avevo niente di meglio da fare, osservai come guidava la canoa il nostro equipaggio e giunsi alla conclusione che quelle leve di legno azionavano due grosse pompe o una batteria di pompe di piccole dimensioni, di modo che la canoa procedeva risucchiando acqua a prua e espellendola poi a poppa. Più tardi scoprii che mi ero sbagliato. Il loro metodo era ancora più semplice. Le leve erano collegate a venti pale divise in due che si protendevano orizzontalmente per cinquanta-sessanta centimetri al di sotto del pelo dell'acqua. Quando una pagaia veniva spinta avanti, le sue superfici delle lame si chiudevano insieme, mentre si riaprivano quando la pagaia tornava indietro. Con questi sistema gli indigeni riuscivano a procedere più velocemente di quanto sarebbero riusciti a fare con dei remi, dal momento che le pagaie si muovevano solo avanti e indietro sott'acqua... e non era necessario sollevarle, girarle e affondarle nell'acqua a forza di muscoli.
Man mano che risalivano il fiume, il sole si alzava sempre più in cielo. Alla seconda ansa, il fiume si diramava in due e la sua corrente era più veloce sui due lati di un'isoletta rocciosa lunga un centinaio di metri circa. Verso il fondo dell'isola c'era un gruppo di quattro enormi alberi i cui tronchi e rami erano di un verde scuro che tirava quasi al nero. Ognuno di essi protendeva una grande quantità di rami orizzontali al di sopra dei quali il tronco continuava a salire fino a terminare in una corona piumata dodici metri più in alto. Ogni ramo poi terminava in una mezza dozzina di robusti ramoscelli che si curvavano verso terra come le dita di una mano nell'atto di afferrare qualcosa.
Mentre gli equipaggi si davano da fare con le leve, la fila di barche imboccò il canale di destra grazie al quale raggiunse il più grande di quei rami immensi. Quando la prua della prima canoa vi passò al di sotto, le dita del ramo si contrassero con avidità. Ne sono sicuro, non fu un'illusione. Lo vidi con assoluta chiarezza, come vedo la busta paga quando me la passano sotto la scrivania. Quel ramo si stava apprestando a catturarci e dalle sue dimensioni calcolai che avrebbe potuto sollevare la canoa con tutti quelli che c'erano a bordo per far loro chissà che cosa.
Però non lo fece. Proprio mentre la barca entrava nella zona di pericolo, il timoniere si alzò in piedi e lanciò una sfilza di parole incomprensibili all'indirizzo dell'albero. Le dita del ramo si rilassarono. Poi il timoniere della barca che veniva dietro fece lo stesso e altrettanto fece il seguente e quindi il mio. Io, che me ne stavo sdraiato sulla schiena, pronto a reagire quanto può farlo un cadavere, osservai con occhi stralunati quell'enorme torcicollo che si sollevava lentamente per lasciarci passare e quindi ricadeva dietro di noi. Il nostro timoniere non disse altro e fu quello dietro di noi a parlare. Provavo un profondo gelo lungo la spina dorsale.